Un giorno d'orrore per i fanti iracheni

Un giorno d'orrore per i fanti iracheni Gli Usa hanno scatenato l'offensiva aerea più massiccia dall'inizio della guerra Un giorno d'orrore per i fanti iracheni Già sganciati tre quarti delle bombe che distrussero la Germania nazista Riad: si scava tra le macerie di un palazzo colpito dalle schegge di uno Scud iracheno intercettato figura di Camera; eppure anche lui, quando smette per un attimo i panni ufficiali del suo ruolo e si lascia andare, ridiventa subito tutto quello che il suo sonoro nome alemanno di Testanera lascia immaginare, generazioni cioè di contadini bianchi e rossi, solidi, robusti, tirate su a latte e patate in qualche landa piatta del Centro Europa. Gli americani hanno portato qui una potenza di fuoco che supera del 102 per cento il potenziale esplosivo di tutta la guerra del Vietnam, e ci sono tante bombe da lasciar cadere sulla testa degli iracheni che già sono stati sganciati i tre quarti di tutte le bombe che in quasi cinque anni distrussero la Germania del Reich. Se si vuole continuare con le cifre, ce n'è quante se ne chiede: sono state compiute già 41 mila incursioni su Iraq e Kuwait, la capacità di comando del nemico è stata ridotta del 65 per cento, sono stati distrutti 25 ponti su 35 e 86 bunker aerei su non si sa quanti, i B-52 fanno da 300 a 600 raid giornalieri, gli alleati hanno avuto finora solo cinque soldati uccisi dal nemico mentre otto li hanno ammazzati loro stessi, con quello che qui chiamano «friendly fire», il fuoco amichevole (è una delle tante ipocrisie di questa guerra, vuol dire che un marine ha sparato per errore addosso a un suo compagno. Un'altra ipocrisia dei bollettini di questa guerra è «i danni collaterali», l'espressione con cui i militari sono soliti chiamare pudicamente le vittime civili di un bombardamento). Sul «friendly fire» c'era stato già qualche sospetto, e ieri il sospetto è stato confermato dal generale Johnston. Nella notte del 29 gennaio, durante la battaglia di Umm Hujul, un blindato Lav25 con sette malines di pattuglia nel deserto è finito addosso a un carro iracheno che era spuntato all'improvviso fuori da ima duna; un aereo americano ha sparato friendly il suo missile, e il razzo si è infilato friendly nella pancia del Lav. L'ottavo morto l'ha fatto ieri un altro aereo dei marines, che aveva scambiato lucciole per lanterne e ha bombardato friendly un convoglio americano che marciava troppo vicino alla frontiera. «Sono tristi accidenti della guerra», ha detto il generale Johnston, e i marines che incontri nel deserto, di questa storia non vogliono sentirne nemmeno parlare. Diciannove giorni, e la guerra continua come se fosse il primo. Solo che la margherita va perdendo i suoi petali imo dietro l'altro: gli alleati prima le hanno tirato via il petalo della forza aerea, poi quello della marina, ora pare che sia arrivato il turno delle stesse radici; le stanno tagliando, insomma, tutte le strade che dall'Iraq portano i rifornimenti al fronte. Dice il capitano Nil Irving, elegante giovanotto della Raf di Sua Maestà britannica: «Un obiettivo prioritario dei raids sono ora le vie di comunicazione». Distruggere strade e ponti significa bloccare i convogli, ritardarne la marcia, allungare all'infinito i tempi per l'arrivo in trincea di pane, riso, munizioni, pezzi di ricambio. Brmbe sulla testa ventiquattr'ore al giorno e stomaco vuoto, o quasi, perché non c'è più di un pasto nella giornata, la vita dei soldati iracheni al fronte pare davvero brutta. Qualche ufficiale racconta che quelli fatti prigionieri sembrano felicissimi, e che non credono ai loro occhi quando vedono che gli si dà da mangiare tre volte al giorno. «Avevano paura che li ammazzassimo, mangiano e ci guardano con gli occhi spalancati». L'ufficiale dice anche che nei carri armati bruciati da qualche razzo, hanno trovato i resti di un ferro da stiro, una di quelle macchinette giapponesi che triturano le verdure, e anche un fon. C'è da credere che i soldati non facciano la permanente nel carro armato, erano solo i furti della miseria da qualche casa di Al Khafji presa nel saccheggio. Sono le storie di tutte le guerre, dove i nostri sono quelli buoni e gli altri sono sempre gli indiani. Schwarzkopf, per esempio, ha detto ieri che Saddam.gli pare un po' disturbato, e che certamente è sotto cura medica. Sembrava Custer che parlava di Toro Seduto. Sono storie sempre tristi, comunque, e la fame e la morte non possono avere nazionalità. La guerra consuma insieme uomini e macchine: ieri è caduta una fortezza volante, sui mari dell'Oceano Indiano, e un elicottero Cobra si è infilato a testa in giù nel deserto; però anche i computer ieri hanno segnalato subito da quale parte dell'Iraq era stato tirato un missile sull'Arabia Saudita, e una pattuglia di Scudboosters che gira in continuazione nel cielo si è lanciata sulla zona presunta della rampa irachena e l'ha fatto fuori. E' una buona notizia, per chi vive qua. Ma ci si abitua presto a tutto: ieri erano stati lanciati su Israele e sull'Arabia Saudita altri tre Scud, e ora meritano solo una riga di cronaca, l'ultima. Mimmo Candito ARABIA SAUDITA DAL NOSTRO INVIATO Diciannovesimo giorno di guerra. Il comando alleato dice che ieri è stato il giorno più tranquillo, in pratica come se gli iracheni neanche esistessero. E infatti se ne stavano tutti dentro le loro trincee, con la testa bassa, muti, e nemmeno un attimo a tirare fuori gli occhi per vedere l'inferno di fuoco che gli cadeva addosso. Il deserto è diventato un orizzonte piatto, immobile, senza un'anima in giro a guardare i crateri che le bombe aprivano nella pancia della sabbia. Una guerra però è così fatta, che quello che va bene a uno è una disgrazia per l'altro. E la tranquillità degli alleati, era poi quest'inferno dei poveri fanti di Saddam. Diceva il capitano Mike Ruocco: «Son diciotto giorni che gli diamo addosso, ma mai è stata dura per loro quanto ieri». Ruocco aveva i nonni che facevano i contadini in qualche povera campagna calabrese, e di italiano però ricorda solo il proprio cognome. «Sono passati tanti anni», dice e poi passa a raccontare di come suo nonno usasse il coltellino per tagliargli una canna e farne uno zufolo. L'aereo sta accanto a lui, appena tornato da un raid sul Kuwait. E' un bombardiere che non si può riconoscere, in una base americana che non si può dire, in un posto dell'Arabia Saudita che non si può citare. Sono le regole della guerra raccontata a metà. Ruocco si stringe nelle spalle, e pensa al suo zufolo di quando era un bambino. «Un giorno - dice - andiamo a mangiarci un piatto di spaghetti assieme, quando tutto questo sarà finito». Ma ha la faccia tirata, e gli occhi grigi. „ Che brutta bestia la guerra, quando metti da parte le macchine e ti trovi faccia a faccia con gli uomini. E non conta niente che siano uomini americani o uomini iracheni. L'altro ieri passavano da qui alcuni soldati di Saddam appena fatti prigionieri nella battaglia di Al Khafji: le loro facce non erano poi tanto divcvse da quelle che doveva avere il nonno di Mike Ruocco, facce di contadini, tagliate un po' grosse, con solenni baffi assiri. Loro sparavano allo stesso modo di come il capitano sgancia le bombe dal suo aereo che non si può raccontare; facevano un lavoro che regola i conti con la morte, ma appena lo lasciano da parte ridiventano subito figure di un'altra storia, con una forte identità comune. Prendete perfino uno come Schwarzkopf, il gran capo alleato, che è un omone alto e grosso che con quella stazza nella sua vita non poteva fare altro che il generale americano o la contro¬