«Non scelgo io i personaggi, loro scelgono me» di Donata Gianeri

«Non scelgo io i personaggi, loro scelgono me» Parla Massimo De Francovich, l'attore ronconiano da domani in scena all'Adua di Torino con «Caro Bonbon» «Non scelgo io i personaggi, loro scelgono me» «Di Svevo, mi piace la capacità di risolvere le cose sempre con grande ironia» «Ieri sera mi sentii vecchio e sentii te giovane giovane...»; «Mia cara Livia, ecco che posso fissare sulla carta il mio segno puro...». «Mia buona Livia...». «Mia cara moglie...». Lettere: lettere appassionate, struggenti, rabbiose, ironiche, piene di gelosia, di rimpianto. Lettere scritte da Italo Svevo nell'arco di trent'anni e dai luoghi più diversi alla moglie Livia Veneziani che Massimo De Francovich legge con la sua bella voce suadente, scandita, vibrante, affettuosa, dolce, triste, pervasa di sottile malinconia, in un a solo di oltre un'ora e mezzo e su una scena nuda, occupata soltanto da alcuni leggìi. Un leggìo per ogni luogo da cui proviene la lettera dell'esule rabbioso: Londra, Murano, Tolone. Caro Bonbon con Massimo de Francovich, regia di Marco Sciaccaluga, debutta domani al teatro Adua di Torino. «Lo spettacolo è nato a Spoleto, tre anni fa, in occasione dei concerti in prosa. Su mille lettere dei suoi epistolari, ho scelto le più belle, le più significative, cioè quelle che raccontano la storia dell'industriale, marito e padre Ettore Schmitz, durante questa sorta di esilio lavorativo. Dopo l'insuccesso dei suoi due libri, Svevo aveva deciso di mettersi a lavorare nella fabbrica di vernici sottomarine dei suoceri: queste lettere, scritte con uno stile non curato e originale, ce lo mostrano sotto un aspetto insolito, e certamente curioso». Ma oltre all'industriale frustrato, al marito geloso, viene fuori anche lo scrittore di genio? «Quello che viene fuori è un personaggio straordinario, pieno di gelosia, disincanto, cattiveria. Sono lettere di un innamorato, di un marito che non resiste più alla lontananza, di un uomo deluso che vorrebbe far lo scrittore e invece è costretto a seguire gli operai nei posti più incredibili mentre fanno le "cot¬ te". Eppure, fra le righe, affiorano tutte le commedie che scriverà, tutti i suoi romanzi, c'è persino La coscienza di Zeno. Proprio nel momento in cui ha deciso di chiudere con la letteratura e di non occuparsene più, ecco che la letteratura rompe gli argini, inonda quest'epistolario, ne impregna ogni riga, ogni parola». Lei è un cultore di Svevo: è una questione di radici o di atmosfere? «Di Svevo, mi piace la capacità di risolvere le cose senza passionalità o freddezza, ma sempre con grande ironia. E' uno che dice: la vita non è né bella, né brutta. E' originale. Attraverso le lettere, viene fuori questo straordinario chirurgo dell'animo umano, ironico e grottesco, pietoso e privo di pietà». A tre anni di distanza immagino che le lettere di Italo Svevo avranno acquistato uno spesso¬ re diverso. «Certo: quest'esperienza fatta su un testo letterario e non teatrale, voglio dire l'operazione per rendere vivo e appassionato un articolo, vale a maggior ragione nel caso di una lettera. Ronconi, con il suo Kraus, mi ha insegnato a spolverare ogni battuta in modo da renderla moderna, attuale, viva. E' uno che riesce a infondere vita nelle battute letterarie mettendoci una gran passionalità. Tutto ciò mi ha permesso di riaffrontare il testo con maggiori durezze e asprezze e dandogli colori più vivi». Che effetto le fa esser passato da un'operazione corale, suggestiva e impressionante, come quella del Lingotto, a uno spettacolo come questo, intimo, chiuso, in cui è solo, su un palcoscenico normale, davanti a una platea normale? «Anche questo, mi creda, non è solo l'esibizione di un attore, ma un vero spettacolo. Certo il Lingotto è stata una svolta importantissima nella mia carriera, qualcosa che non avrei mai pensato di fare e che, forse, non farò mai più. Una grossa scommossa, per tutti noi, vinta al prezzo di enormi fatiche. Ne sono uscito stremato, ma mi è servito a capire che questo è un mestiere in cui, se non dai la trippa, non viene fuori niente. Le grandi interpretazioni oggi, in Italia, si contano sulle dita. In giro c'è tanta cialtronaggine, tante parole a vuoto, tante chiacchiere da trattoria. Io penso invece che la cosa più importante, non sia dire, ma fare. Eppure la maggioranza non sembra capire che se non rischia, se non produce spettacoli importanti, finirà per lasciar dietro di sé soltanto un nome, piuttosto che un modo di far teatro». Immagino che lei, a questo punto, non abbia più intenzione di tornare a fare il battitore libe¬ ro. «E perché dovrei? Qui ho la possibilità di fare il primattore in una compagnia di prim'ordine con un regista di altissimo livello. Vede: un tempo gli stabili erano feudo di un primattore o di una primattrice, sui quali veniva scelto il repertorio. Che non è poi un'operazione altamente culturale. Oggi a Torino è cambiato tutto; c'è un tale parco di attori, che Ronconi può scegliere tutti i testi che vuole. La sua è una compagnia talmente importante e talmente indirizzabile in tutto, dalle età alle attitudini, che può essere paragonabile al Piccolo di Milano, subito dopo la guerra. Non a caso, gli attori che recitano con lui sono i più premiati d'Italia: il premio Curdo, per esempio, a me è arrivato dopo Strano Interludio. Anche il Kraus io non l'avrei mai interpretato, se non mi avesse spinto lui, con la sua implacabile dolcezza. Il fatto è che molto spesso uno non prende la misura esatta di quello che potrebbe essere: soltanto un grande regista può vederti con lucidità nei panni di questo, o di quello. Il che può essere anche rilassante: io non scelgo i personaggi, sono i personaggi a scegliere me». Donata Gianeri Massimo De Francovich sarà nei prossimi giorni all'Adua di Torino con l'allestimento di «Caro Bonbon», tratto dalle lettere di Svevo alla moglie

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