Stava morendo: salvato dalla musica di Sandro Cappelletto

Stava morendo: salvato dalla musica La vera storia di un ragazzo guarito da una ninnananna più decisiva dell'elettrochoc: un analista ha saputo restituirgli coscienza e volontà che aveva smarrite Stava morendo: salvato dalla musica P ROMA UO' la musica riuscire lì dove si arresta la medicina? Può salvare, col ritmo e la melodia, un corpo e una mente perduti, passivi anche alle più moderne terapie? Non ci sono risposte certe, ma talvolta, e non troppo raramente, giungono notizie, racconti. L'ultimo è di pochi giorni fa, da un ospedale deh'Emilia: un ragazzo nigeriano, in coma dopo un incidente automobilistico, riprende a parlare solo dopo aver ascoltato la registrazione di alcuni canti della sua terra, avventurosamente giunti fino alla sua stanza del reparto rianimazione. E del resto, non guadagnò le prime pagine quella madre di Chiavari che, parlando e accarezzando il figlio, ottenne finalmente da quel corpo abbandonato e muto la gioia di un segnale cosciente? Anche questo è un racconto, dove però all'amore di una madre si sostituiscono la scienza e la passione di un analista, che ha saputo restituire volontà e coscienza a un ragazzo che le aveva smarrite. Se la musica è stata all'origine della sua disperazione, anche la musica lo ha salvato. Non un trauma fisico è la causa di questa vicenda, ma un collasso psichico paralizzante. Roberto, chiameremo così il protagonista, ha 18 anni. Ha perduto il padre quand'era bambino, vive con la madre e la nonna. Elisabetta, la sorella più grande, è già sposata. Roberto studia il violino. Anche Elisabetta suona, è pianista, ma per lui l'impegno è più serio. Frequenta il Conservatorio, gli manca solo un anno per ottenere il diploma. Non è troppo soddisfatto degli insegnamenti del suo maestro e vorrebbe lasciare il paese del Lazio dov'è cresciuto per iscriversi a un corso di perfezionamento a Roma, all'Accademia di Santa Cecilia. Quando comunica la decisione, nessuno la comprende. Il maestro la interpreta come un oltraggio e gli intima di non farsi più vedere: «Se non ho più la tua fiducia, è meglio non perdere neppure un minuto», dice. Anche la reazione della madre è violenta, ricattatoria: con quale coraggio Roberto potrà lasciare sole le due donne, come si potrà mantenerlo a Roma, chi frequenterà? Lei è sicura che si tratterà di una partenza senza ritorno e dopo il marito perderà anche l'unico figlio maschio. Perché non prende il tranquillo diploma nel Conservatorio della provincia? Poi farà domanda d'insegnamento e, se non troverà una cattedra, comunque s'impiegherà, continuando a suonare, magari in duo con la sorella, per qualche concerto nel cinema del paese. Roberto è un bel ragazzo, alto e robusto. E una sera, dopo l'ennesima litigata, scatena tutta la sua forza contro la madre, afferrandole il collo e stringendo, fino a quando non viene immobilizzato nella stretta dei poliziotti. Si risveglia in una clinica psichiatrica, svuotato di ogni energia dai sedativi. Rifiuta i colloqui con i medici, rifiuta il cibo, rifiuta di alzarsi: se lo costringono a canuninare, appena gli infermieri lasciano la presa, cade a terra. Cade anche dal letto, al quale vengono poste le sbarre. Rifiuta il violino. Viene nutrito con fleboclisi, dopo quindici giorni presenta una piaga da decubito profonda fino al coccige e infetta. Passa il tempo dormendo, o piangendo. La diagnosi parla di sindrome catatonica grave e, per risvegliarlo, si propone l'elettroshock. Ma Antonio Tallerini, un medico della clinica, teme che la conseguenza di quella terapia possa rappresentare non l'uscita dal buio ma al contrario rendere cronica la situazione psichiatrica. Roberto rischia di non destarsi e di morire per le conseguenze dell'infezione. «Quegli occhi colmi di lacrime - dice Tallerini - rivelavano una sensibilità ancora vigile, un dolore che chiedeva di esprimersi». E il medico tenta, ancora confusamente, un 'altra terapia. Si avvicina al letto, batte con le dita le sbarre di contenzione. Il metallo .vuoto risuona, secondo un ritmo ora più serrato, ora più lento. Roberto gira la testa, alza lo sguar¬ do verso il dottore che si china su di lui, dolcemente dicendo cose terribili: «Se non ti alzi, muori. E non c'è più tempo, devi farlo subito. Altrimenti muori». Due infermieri lo sollevano, lo lavano e disinfettano, lo sorreggono fino alla sala da pranzo della clinica. E' un primo, evidente successo, nessuno propone più l'elettrochock. Tallerini non ha mai praticato la musico-terapia, non si è mai occupato dei «suoni fondamentali», quelle note e frequenze, diverse in ognuno di noi, che, ascoltate, provocano una risonanza benefica, capace talvolta di allentare le più gravi tensioni. Ma comprende che attraverso la musica passa l'unica, possibile comunicazione con Roberto. Quale musica? «Bisognava escludere tutti gli strumenti, gli autori, le opere che potevano ricordargli i suoi studi, le ambizioni e le frustrazioni, il processo che lo aveva condotto al ricovero». Ricorda di avere ascoltato una cassetta di Andreas Wollenweider, un compositore svizzero vicino ai cosiddetti ripetitivi. Musicisti che individuano brevi frasi melodiche e attorno ad esse, variandole nel ritmo, nell'intensità, nell'accompagnamento, costruiscono intere opere. Philipp Glass e Terry Riley, ad esempio. E la musica di Wollenweider che intende descrivere, grazie anche a campionatori elettronici, i boschi e i torrenti, voli di uccelli e tramonti, sembra racchiudere una lieta serenità. Musica «minima», che ripete se stessa, avvolgendo chi ascolta nell'iterazione di semplici melodie. Una ninnananna rassicurante, meno complessa delle forme-sonata, delle fughe o dei canoni cui è abituato Roberto. Qualcosa di meno impegnativo, un gioco che sfalda il muro della sua indifferenza suicida, che diventa il suo scivolo verso la vita. Un giorno Roberto chiede un foglio e disegna un tronco d'albero, con un buco al centro: il suo corpo piagato, scavato fino all'osso. In un secondo disegno, riempie quel buco. E' il primo sintomo di una volontà di guarigione. Poi, gli toma la voglia di farla lui, la musica. Domanda del suo violino, pretende che sia la madre a portarlo in clinica. Poi rifiuta di vederla. Quando riceve lo strumento, lo toglie dalla custodia, lo guarda, lo tocca, non lo suona. Gli chiede scusa per averlo trascurato, vuole che sia riportato a casa. Ma la separazione non dura a lungo. La seconda volta, il violino ritorna per restare. Davanti al suo medico, unico spettatore, Roberto suona a memoria la romanza Op. 40 di Beethoven: un concerto di ringraziamento, lo stesso brano che aveva eseguito nell'unica esibizione tenuta in pubblico, al paese. Ora Roberto è stato dimesso, è tornato a casa e le sue piaghe sembrano essersi richiuse. Non è andato a perfezionarsi a Roma, si sta diplomando nel suo vecchio Conservatorio, ma con un altro insegnante. E, come tutti i giovani musicisti, è molto incerto sul proprio futuro. Sandro Cappelletto

Persone citate: Antonio Tallerini, Beethoven, Philipp Glass, Santa Cecilia, Terry Riley

Luoghi citati: Chiavari, Lazio, Roma