il ROCK ora esplode in libreria di Marinella Venegoni

il ROCK ora esplode in libreria il ROCK ora esplode in libreria r\ I ENORA, donde hay musica,nopuedehabercosa «mala», diceva Don Chil j sciotte. Ma era un sogna.^iJtore, e non poteva nemmeno immaginare che un giorno lontano ci sarebbero stati gli Anni 60, e sarebbe nato il rock, e poi il musicbusiness, e tutto il resto che noi invece sappiamo. I detrattori chiamarono subito il rock «musica del diavolo», ma ad esso si debbono almeno un paio di riconoscimenti storici. Il primo, è di esser stato un fenomeno tanto sentito da marchiare il costume e il linguaggio di un'epoca, e da creare una controcultura i cui temi ancor oggi (scomodamente, a volte pateticamente) sopravvivono da qualche parte; il secondo, di aver lasciato in eredità ai suoi discendenti uno spirito di moralità (una delle sue costanti, almeno teoriche), che talvolta torna ad affacciarsi. Non è un caso che Amnesty International abbia scelto il rock e i suoi eroi di oggi, dagli U2 a Springsteen, per diffondere i proprii ideali e denunciare i diritti umani violati nel mondo; e non è un caso che il pacifismo conservi in gran parte i suoi inni Anni 60. Ed è nato in modo spontaneo il concerto per la Pace che s'è tenuto sabato sera a Roma, promotore Gino Paoli, con Paola Turci, Bertoli, la De Sio e altri personaggi minori, che ne hanno avuto anche un ritorno di immagine. Inevitabile. Poi, i disastri, i pasticci e le contraddizioni che hanno accompagnato spesso la musica «giovane» - dai numerosi divi morti per droga, al plagio sempre più diffuso, alla recente truffa dei Milli Vanilli, che hanno dovuto restituire un Grammy perché non erano stati loro a cantare nei milioni di dischi che avevano venduto - fanno parte del lato oscuro del fenomeno, così ben denunciato dai Sex Pistols con «La grande truffa del rock'n'roll». Ma c'è un termometro sicuro per misurare la differenza fra passato e presente: sono i libri e i periodici musicali, che hanno avuto un'evoluzione significativa nel corso di questi vent'anni e più. Nei Sessanta, il primo rock, dei «signorini» Beatles, del vate Bob Dylan e di tutti gli altri, fu studiato e sviscerato in saggi e settimanali dotti e documentati, con un linguaggio alto e spesso criptico (anche in Italia) dagli apostoli della controcultura, molti dei quali critici militanti ancora in attività. Quella musica era contenuto e sottofondo di un radicalismo venato di sentimentalismo e di sentimenti egualitari, puritano e autoindulgente, che pretendeva sempre la sincerità (e molti non si sono ancora disabituati) mentre rifiutava i valori degli adulti. I quali consideravano a loro volta il tutto come uno stravagante edonismo da strapazzo, sintetizzato nell'ormai gnomica formula «Sesso, droga e rock'n'roll». Durante quegli anni, grazie all'interesse dei media, gli aspetti più superficiali della controcultura diventarono negli Stati Uniti oggetto di attenzione generale, una moda da consumare durante il weekend, e perciò da commercializzare in tutti i modi possibili. E quando i media cominciarono a disinteressarsene, il commercio era tanto solidamente avviato e radicato, che aveva cominciato a fagocitarsi anche la musica. Fu un processo assai lento e tortuoso, che dobbiamo per forza tralascipr~, ma che comprese l'esplosione dei magazine musicali: dapprima intrisi di ambizioni (contro)culturali, poi sempre più in decadenza per l'asservimento totale all'industria discografica: in Inghilterra hanno ancora una certa fortuna «Melody Maker» e «New Musical Express», anche se prevalentemente imbottiti di pettegolezzi e articoli di pura promozione dei nuovi gruppi, mentre salgono le quotazioni dei mensili eleganti e patinati, come «Q», che mescola moda, ci¬ nema, recensioni e interviste musicali. In Italia la situazione è ancor più disastrata, alla qualità scarsa corrispondono vendite basse; target sono sempre più i ragazzini, le pressioni dell'industria hanno ucciso il vecchio spirito, oppure, come nel caso di «Mucchio Selvaggio», i contenuti più seri interessano ormai ima fascia ristretta di appassionati. Sebbene la testata sia depositata anche da noi, l'Italia non ha mai avuto un periodico musicalculturale di prestigio ma anche di massa come l'americano «Rolling Stone», oggi in decadenza, ma fin dai '60 punto di riferimento per gli appassionati. Ora un libro ne ricostruisce la storia e le contraddizioni: «Rolling Stone Magazine: The Uncensored History», uscito negli Stati Uniti, è stato scritto da un ex giornalista della testata, Robert Draper; aiuta a chiarire, con la crudeltà e la pignoleria tipica degli americani, le dinamiche dell'epoca nella quale la rivista nacque, nel '67 a San Francisco, e si sviluppò, fino al trasferimento a New York nel '77, e oltre. Ne sono protagonisti pittoreschi personaggi che hanno popolato nel tempo la sua redazione, a partire dall'editore e direttore, sempre lo stesso, Jann Wenner, descritto contemporaneamente come l'eroe e il mascalzone della favola. Alla fine, la morale è che sono sempre gli affari a prevalere. Wenner, ora quarantacinquenne, fu la prima persona nel giornalismo a capire ciò che il musicbusiness sapeva da tempo e i pubblicitari avrebbero presto imparato: che il rock era diventato un pilastro nella vita della classe media americana, e andava quindi sfruttato in ogni maniera. Ma Wenner era anche il prototipo del fan. Disse una volta di aver fondato la rivista per riuscire ad incontrare John Lennon; ce la fece, naturalmente, e conobbe molti altri idoli i quali, diventati suoi amici, finirono regolarmente sulla copertina del quindicinale, una delle cose che ancor oggi gli artisti più ambiscono nella vita. Disse un suo collaboratore: «Ho sempre pensato che Jann avesse davvero la mentalità del fan. Voleva distruggere Mick Jagger perché sosteneva che fosse un tipo freddo, e non riusciva nemmeno a pensare che potesse essere solo una sua impressione, ricavata dall'incontro». Ma, per essere un fan, questo Wenner ci marciava anche: secondo Draper, pensava che non ci fosse niente di male ad alterare la critica d'un suo giornalista per far piacere a qualche major e averne la pubblicità. Non così la redazione; spiega un ex collega a Draper: «Credevamo di vivere la più grande rivoluzione culturale dai tempi del sacco di Roma, di essere dei leader della nuova era». Negli Ottanta, al passo con i tempi, «Rolling Stone» moltiplicò gli sforzi per diventare un punto di riferimento delle aziende musicali, promosse l'uso dei divi rock nella pubblicità e la sponsorizzazione dei concerti: insegnava a far girar quattrini che in qualche modo rimanessero appiccicati alla testata. E questa faccenda dei guadagni è un altro degli aspetti contraddittori del rock, le cui star hanno sempre voluto, fin dall'inizio e prima di tutto, diventar ricchi: Bill Wyman racconta, nella sua autobiografia uscita a fine anno, che quando lasciò il lavoro di impiegato per diventare uno Stone, disse alla madre che avrebbe dovuto tenere i capelli lunghi soltanto per qualche anno, il tempo sufficiente per comprarsi una bella casa e un'auto. Dopo lunghi anni di scintillante nulla, il settore dei libri è tornato a fiorire nel musicbusiness anglosassone. Il taglio è però tutti diverso dal passato: se nel '76 usciva, canonizzata da «Rolling Stone», la «Storia Illustrata del r'n'r», una delle migliori collezioni di critiche di rock classico, oggi è nei negozi la storia del quindicinale di cui abbiamo appena parlato, che con la sua quantità di ghiotti pettegolezzi, e qualche piccola immancabile vendetta personale dell'autore, vale come una piccola storia del costume di questi decenni. Analisi dotte non si stampano più, né saggi di ideologie musicali. Con pragmatismo, si fa piuttosto leva sulla curiosità morbosa dei fans, o si gareggia ad abbattere i miti e a togliere i veli pesanti che hanno occultato per tanti anni verità non piacevoli da accettare. Spinti dal successo dell'autobiografia di Tina Turner e della vastissima eco suscitata dalla biografia di Albert Goldman, che distrusse l'immagine di John Lennon (ma non spostò di un millimetro il giudizio dei fans, come si capisce in questi giorni di guerra vissuti attraverso la sua «Give Peace a Chance»), sono uscite in questi ultimi anni una valanga di biografie e autobiografie, che sempre più vengono tradotte anche in italiano: Michael Jackson o Joan Baez, Bruce Springsteen o molto recentemente George Michael, sono prevalentemente libri autorizzati, nel senso che vengono ripuliti di tutte le indiscrezioni o dei pettegolezzi non graditi al protagonista, e perciò falsano la realtà. Escono ormai spesso in concomitanza cun i dischi, per trainarne il successo, sono insomma un elemento di promozione e poco più, di scarsissimo interesse critico. Per fortuna, non tutta la «letteratura» musicale ha questo stesso taglio; ma sull'altro fronte prevale negli autori l'esigenza di rivedere e demolire quanto è stato detto o scritto in passato. Trionfa oggi il libro-scandalo, una sorta di rotocalco letterario che in tutto il mondo invade le librerie, i cui scaffali dedicati a rock e affini si riempiono sempre più. Meglio il libro-scandalo o rivelazione, comunque, che il piattume che circola nella produzione italiana. A parte le traduzioni, le biografie dei cantanti o autori italiani non sono mai men che incensatorie; nessuno ha mai provato a descrivere i chiaroscuri e le contraddizioni dei nostri beniamini, che continuano a vivere in una sorta di nicchia santificata. E nessuno ha mai provato, per esempio, ad alzare i veli sui pasticci di Sanremo: un materiale che scotta troppo. Ma, vista l'aria che viene dall'estero, non è detto che prima o poi qualcuno non si decida a lanciare la prima pietra. Marinella Venegoni Non si stampano più saggi dotti: trionfa il libro-scandalo il ROCK ora esplode in libreria Mike Jagger, leader dei Rolling. Nelle pubblicazioni di oggi si fa leva sulla curiosità dei fans o si gareggia ad abbattere i miti