I tristi sguardi della tragica signora Pina di Donata Gianeri

I tristi sguardi della tragica signora Pina «Sono al sesto film in cui interpreto la moglie di Fantozzi, ma potrei continuare all'infinito» I tristi sguardi della tragica signora Pina Milena Vukotic, donna amata da Fellini, Bunuel e Osbima «E' il sesto film in cui interpreto la moglie di Fantozzi e credo potrei continuare all'infinito», mormora Milena Vukotic con la voce sommessa, standosene seduta composta, le ginocchia unite, le mani pallide posate sul grembo. Gli occhi truccati di viola sono rivolti all'ingiù, le labbra sottili piegate in un malinconico sorriso, i capelli raccolti in una treccia che le scende, rigida, sulla schiena. Ma è proprio questa sua faccia da Pierrot che ha incantato i più grandi registi, da Bunuel a Fellini, da Tarkovski a Oshima, ciascuno dei quali l'ha voluta in un suo film, fosse pure per un'apparizione. E lei lieve, discreta, sempre molto professionale, è passata leggera come un soffio nei grandi capolavori internazionali. Ma se oggi ha un volto per le platee nostrane, non è certo merito di Bertolucci, ma di Fantozzi. Il che, a pensarci, è abbastanza deprimente. «Deprimente perché? Io stimo moltissimo Villaggio, sia come attore che come scrittore. Trovo che ha inventato un genere, portando anche tra noi quel perso¬ naggio di impiegato con le mezze maniche che si ritrova in tutta la letteratura, da Gogol a Courteline. Mi piace moltissimo recitare con lui. D'altronde, penso che sia proprio questo il lato stimolante del nostro mestiere: aver la possibilità di inventare e di cimentarsi in personaggi sempre diversi. A me il cinema piace farlo soltanto così». — E non importa che si tratti di cinema molto commerciale? «Io di cinema commerciale ne ho fatto tanto. E poi, che vuol dire? Se un film di Bunuel funziona e riempie i cinema, diventa forse per questo commerciale? Le sfumature sono tali e tante che non mi faccio di queste preclusioni. Per esempio, interpretare la moglie di Fantozzi mi diverte un mondo, perché mi piacciono i caratteri: e lei è un personaggio patetico ai limiti del grottesco, ma anche fiabesco, reale e irreale al tempo stesso». — Anche lei sembra un personaggio fiabesco, reale e irreale al tempo stesso: è stato questo, forse, a renderle più facile la strada del cinema? «Facile non lo è mai, mi creda: non pensi, poi, che io abbia tutte quelle proposte. Diciamo che cerco di far buon viso alla precarietà di questo mestiere anche perché vivere nella precarietà mi piace. Ovvio che rispetto agli altri attori più legati al teatro, corro magari il rischio di dover stare un anno senza far niente. Ma questa è una scelta mia». — Vuol dire che privilegia il cinema al teatro? Eppure l'anno scorso ha calcato le scene a fianco di Paolo Poli, quest'anno a fianco di Rossella Falk. «Non avrei mai potuto dir di no a Paolo e, per quanto riguarda la pièce con la Falk, l'ho accettata soltanto perché la tournée era molto breve. Io non amo il teatro proprio perché si finisce col vivere sei o sette mesi completamente fuori dalla realtà: il teatro diventa il quotidiano, si cena sempre con gli stessi colleghi, si vedono sempre le stesse facce, si dicono sempre le stesse cose, circoscritti in una sorta di uniformità aziendale. Nel cinema, è diverso: un film dura al massimo due mesi e anche in questo caso, non si gira mai di seguito. Inoltre, ogni giorno c'è qualcosa di nuovo, di imprevisto». — Manca, però, la famosa comunicazione col pubblico. «Una mancanza che non sento. In teatro, c'è una grande emozione durante le prove, quando nasce il personaggio: e questo dura sino alle prime, cioè sino a quando permane una certa insicurezza e c'è il bisogno di una verifica col pubblico. Dopodiché, la magia scompare e si entra nella routine, perché grazie a Dio siamo degli esseri umani che non tutti i giorni hanno voglia di recitare e non tutti i giorni sono dello stesso umore. Mentre in cinema anche il solo fatto che in pochissimi secondi si debba concentrare un'emozione da racchiudere in un quadrato, mi coinvolge molto di più che avere il pubblico davanti, ogni sera. Il teatro è stato il mio primo grande amore; ma adesso è finito. Il mio amore è il cinema». — E nella vita, a che punto è con l'amore? «Prima c'è la salute, poi il lavoro. L'amore, come vede, rima¬ ne sempre molto ind.' Aro. D'altronde, non si può avere tutto. E 10 il grande amore l'ho vissuto con mia madre, come massima testimonianza di un'armonia assoluta. D'altronde, non credo che 11 grande incontro della vita debba verificarsi necessariamente con un uomo, anche perché so che quello di cui ho bisogno non lo potrò mai avere da un uomo: cioè camminare di pari passo in grande armonia, e in grande comprensione, complicità, sia sentimentale che intellettuale. Con mia madre ho provato tutto questo, per cui non sento il bisogno di altri legami». — Vuol dire che lei oggi basta a sé stessa? «Non lo so: so che mi faccio bastare. In questo modo posso fare tutto ciò che mi piace. Anche se i confini tra libertà e solitudine sono spesso molto tenui. Credo di avere un dentro molto ricco che mi ripaga di ogni solitudine. Della vita mi piace ogni singola cosa: soprattutto, mi piace che la vita esista». Donata Gianeri Milena Vukotic. «I confini tra libertà e solitudine sono molto tenui