«Ora, chi ci darà una mano qui in Italia?»

«Ora, chi ci darà una mano qui in Italia?» «Ora, chi ci darà una mano qui in Italia?» Un torinese, profugo dalla Somalia, racconta la sua odissea ROMA. «Staremo qui fino a metà settimana per vedere di creare un'associazione come profughi della Somalia: vogliamo capire che cosa intende fare il governo italiano per noi, se vuole aiutarci per un eventuale nostro reinserimento in Italia nel caso non riuscissimo più a tornare laggiù. Insomma, vorremmo fare un po' di chiarezza sul nostro futuro. Siamo rimasti con i vestiti che avevamo addosso, senza un soldo», dice Sergio Iano, un torinese che .ha vissuto per trentadue anni a Mogadiscio. E' arrivato sabato sera a Fiumicino da Mombasa, tappa intermedia di un doloroso esodo che come lui ha coinvolto molti connazionali. Si trova con nemmeno un po' di spiccioli per telefonare alla vecchia zia rimasta a Torino, tanto da addebitarle la chiamata e ha freddo perché non ha abiti adeguati ai rigori dell'inverno italiano. Lui, come tutti gli altri. «Ma tra di noi ci aiutiamo, chi ha qualcosa in più lo dà all'altro». «Il momento più terribile? Quello del distacco da quello che hai costruito in tanti anni: la casa, il lavoro, la rete di amicizie, un lungo pezzo importante della tua vita. E, ancor prima, vedere l'ingiustizia di tanti aiuti arrivati dall'Italia finiti malamente. Meno male che abbiamo almeno salvato la pelle! Ma mi rattrista pensare ai tanti amici che invece non ce l'hanno fatta. Ora quasi tutti gli abitanti di Mogadiscio hanno cercato rifugio nella boscaglia: spero proprio che riescano a salvarsi», dice Sergio Iano. Confessa di aver avuto paura. «Già all'inizio di dicembre l'ambasciata italiana ci aveva consigliato di non uscire di casa, di tenere provviste alimentari per almeno quindici giorni; ma erano anni che già si stava male». Poi la fuga, senza nemmeno sapere dov'è il figlio, se è riuscito a salvarsi. Solo ieri sera Sergio Iano ha potuto riabbracciare a Fiumicino il figlio trentenne Daniele arrivato in Italia dopo una rocambolesca fuga: «Sono fuggito da Mogadiscio sapendo solo che era riuscito a rifugiarsi presso l'ambasciata degli Usa e che era poi finito nell'Oman. Ho temuto molto per lui». Padre e figlio ora si trovano in una pensione della capitale insieme a un'ottantina di altri rifugiati. Tra di loro c'è anche un'altra torinese, Gabriella Adamo, che è scappata dalla capitale somala con i due bambini, senza più aver notizie del marito, un commerciante somalo. E' disperata e teme il peggio. Sergio Iano (la moglie da cui era separato è deceduta pochi mesi fa; un'altra figlia vive in San Salvador) era partito nel '58 da Torino con un amico. «Avevamo solo 24 anni e tanta voglia di conoscere l'Africa. Pensavamo di starcene a Mogadiscio giusto due annetti. E invece ci siamo fatti catturare da quella piccola e dolce cittadina in riva al mare dove si viveva benissimo, dove la gente era molto cordiale». Un'atmosfera serena sconvolta dal colpo di Stato del dittatore Siad Barre. «Bastava un nonnulla per essere denunciati ed avere delle grane; s'inventavano anche le accuse. A me è capitato tre volte: una volta, ad esempio, perché secondo loro avrei spaccato volutamente un ritratto di Barre. Comunque, finché ci sono stati i russi, fino al '77, nonostante queste vessazioni, Barre e i suoi amici non si permettevano di dare fondo alle ricchezze del Paese come hanno fatto dopo la loro partenza, di lasciarsi andare a qualunque sopruso. Dopo, infatti, bastava che uno potesse vantare un parente tra i "fedeli" di Barre per prendersi in banca quelle che voleva - ricorda Sergio Iano -. Vedevi spuntare dal nulla immense ricchezze, ville lussuose con ascensori interni, circondate da campi da tennis e un grande sfoggio di numerose auto fuoriserie, mentre per la maggior parte della popolazione era sempre più difficile persino riuscire a sfamarsi». Sergio Iano ha messo a frutto la sua esperienza come modellista nel calzaturificio delle missioni dei Frati Minori (trasfor¬ mata negli ultimi anni in una società per azioni con tre stabilimenti e 370 dipendenti) di cui era attualmente il direttore tecnico. Ora, la tristezza dei ricordi si mescola con la rabbia di chi ha visto crescere le ingiustizie, ma anche assurdi sprechi: «Gli aiuti che arrivavano al dittatore dall'Italia sono serviti a costruire tante cattedrali nel deserto costate miliardi, come il nuovo macello di Mogadiscio mai usato e ora distrutto o il colossale stabilimento Raga automatizzato senza che ci fosse il personale capace di gestirlo e farlo funzionare. Noi italiani non capivamo perché non potevano potenziare, aiutare le aziende che già andavano bene e che avrebbero potuto incrementare la loro attività, perché buttavano via tutti quei soldi per un regime corrotto. Comunque, la colonia italiana in Somalia ha mai avuto un centesimo di questi aiuti; più volte abbiamo denunciato gli sprechi, gli abusi, ma la nostra voce evidentemente era troppo debole. Forse perché siamo considerati italiani di seconda categoria con nemmeno il diritto al voto...». Signor Iano, preferisce rimanere in Italia o tornare a Mogadiscio? «Beh, vede, ormai, dopo tanti anni, siamo legati alla Somalia; se le condizioni cambieranno credo proprio che io e mio figlio torneremmo volentieri a Mogadiscio». Già, ma quando? Stefanella Campana Il dramma di alcune profughe riuscite a sfuggire all'inferno di Mogadiscio