Kuwait City: una spoglia fortezza

Kuwait City: una spoglia fortezza Vista dall'alto sembra imprendibile, ma mancano cibo e medicine e la gente fugge Kuwait City: una spoglia fortezza Fra violenze e abbandono la resistenza del popolo DUBAI DAL NOSTRO INVIATO Vista dall'alto sembra una fortezza imprendibile, a meno di raderla al suolo e farne terra bruciata. Grattacieli che svettano su case e ville sventrate dai colpi di cannone, le finestre prive di vetri, senza un scg: o di vita all'interno, E poi centinaia di piscine verdi, azzurre, prive d'acqua, il fondo coperto dalla spazzatura. Parchi e giardini sembrano abbandonati all'incuria, la sabbia che li divora sommergendo il manto erboso con folate di vento giallastro. Nelle piazze e lungo i viali alberati il traffico civile è scarso, animato a sprazzi dal passaggio veloce di mezzi militari. Poi, in periferia dove le prime dune combaciano con le ultime abitazioni, lo sguardo si perde a vista d'occhio sull'immersa vastità delle postazioni mimetizzate. Là sotto ci sono i cani armati, le autoblindo, i camion cingolati color kaki. Ed i soldati, tanti, tantissimi. Attorno oltre duemila chilometri di strade costruite in sei mesi assieme a 13 viadotti. Un fortilizio nel deserto. Parliamo di Kuwait City, ingoiata il 2 agosto scorso dalle truppe di Saddam Hussein che l'hanno resa off limits agli occhi del mondo in quanto ora per volere di Bagdad il cuore dell'attività finanziaria del Golfo, forziere di mitiche fortune accuir ' ite dai nababbi del petrolio, batte soltanto come capitale fasulla della Saddamyat, la 19a provin¬ cia dell'Iraq. Infatti dal giorno infausto dell'invasione pochi stranieri privilegiati l'hanno potuta visitare, l'unico turista di rango fu in autunno il predicatore nero Jessie Jackson, ma giorni addietro qualcuno l'ha finalmente rivista di nuovo. Si tratta di uno sparuto gruppo di giornalisti di lingua araba invitati a sorpresa nella zona occupata dal ministero delle Informazioni iracheno in uno degli innumerevoli coup de théatre della propaganda del califfo. Certo si è trattato di un tour guidato, adatto - speravano forse gli organizzatori - per scimmiette ammaestrate: non vedo, non sento, non riferisco nulla di sgradito al padrone. Ma l'occasione era troppo ghiotta per tacere su tutta la linea e così dai resoconti dei reporter, come Maamoun Youssef della Reuter, emerge nitida e sfuocata allo stesso tempo l'immagine odierna di Kuwait City. E' la classica horror story condita di dettagli incrociati. Da una parte le rassicurazioni rilasciate dalle autorità locali all'insegna del qui tutto bene, dall'altra le ammissioni sullo sfacelo della vita cittadina fornite sottovoce da alcuni coraggiosi. Ecco allora Mohammed Abboud Salaman, generale iracheno responsabile per il dipartimento della sanità, che giura sull'ottima salute degli ospedali, che i 14 nosocomi della città con cinquemila posti letto «sono pronti ad affrontare le necessità della guerra. Abbiamo scorte sufficienti di acqua, elet¬ tricità e medicine». Non una parola sulle razzie documentate dei centri medici, sulle incubatrici disattivate condannando a morte i neonati, sul materiale sanitario confiscato e trasferito in Iraq. Però la realtà è ben diversa, racconta un farmacista: mancano molti medicinali di base, i rifornimenti sono inesistenti, ci si arrangia con ripieghi di emergenza. E non basta. Alle risentite affermazioni di tranquillità apparente delle fonti ufficiali si oppongono le cifre drammatiche sullo stillicidio delle fughe fornite, dati alla mano, dalla vox populi. Chi può scappa, preferisce scambiare l'umiliazione della prigionia con l'incognita della sorte attraverso il deserto, pronto a sfidare i posti di blocco iracheni eretti lungo i percorsi verso il confine saudita, distante 130 chilometri, e la frontiera giordana a settentrione. Si calcola che non meno di duemila persone, in massima parte palestinesi, lascino la regione ogni giorno sotto la guida di esperti scout beduini. Se ne vanno le donne, terrorizzate dagli stupri della soldataglia, gli anziani, gli uomini validi. Indietro restano, spiega Ahemd Nabulsy, un ventenne di Gaza, i giovani con il compito di vegliare sulla case abbandonate nella speranza di tenere a bada i razziatori. Da mercoledì scorso è stato imposto il coprifuoco notturno, alle 20 le strade si svuotano, si spengono le insegne dei negozi, l'elegante distretto di Salmiya appare morto. Dalle scansie degli empori alimentari sono spariti da mesi riso, farina ed olio, vige il razionamento dei generi di prima necessità, il prezzo della verdura importata dalla Giordania è decuplicato rispetto ad agosto. Bilanci familiari dunque all'osso però alleviati in qualche modo dall'escamotage messo in atto dalla resistenza kuwaitiana. Impossibilitata ad operare sul piano armato causa la stretta sorveglianza delle forze di occupazione (la scorsa settimana tuttavia un'autobomba era esplosa dinanzi ad una stazione di polizia senza provocare vittime) l'opposizione interna ha sfoderato un'arma inedita. E' il boicottaggio degli istituti scolastici aggiunto al rifiuto al lavoro negli uffici pubblici e la sfida aperta agli editti del governatore militare, compreso l'obbligo di assumere la cittadinanza irachena. A quanti combattono silenziosamente spetta il premio generoso stanziato dal governo in esilio di mille dinari, circa tre milioni e mezzo di lire, che ogni mese messaggeri clandestini recapitano alle famiglie in lotta. E che siano numerose lo ammette persino Shibab Ahmed Jassem, direttore generale per l'educazione: «Non discriminiamo nessuno però è un fatto che i kuwaitiani non mandano i figli a scuola». E' una guerra non dichiarata, già vinta in partenza. Piero de Garzarolli Il leader palestinese Yasser Arafat risponde ai giornalisti durante la conferenza-stampa che s'è svolta ieri a Baghdad

Persone citate: Ahemd Nabulsy, Jessie Jackson, Mohammed Abboud Salaman, Piero De Garzarolli, Saddam Hussein, Yasser Arafat

Luoghi citati: Bagdad, Baghdad, Gaza, Giordania, Iraq, Kuwait