E Molino inventò la minigonna di Ernesto Gagliano

I geni e le idee del tempo I geni e le idee del tempo Chi ha aiutato Einstein Intervista con il grande disegnatore: una mostra per 50 anni di attività E Molino inventò la minigonna «Una volta ho fatto sei dita al Papa» HE rapporto può mai esistere tra i discorsi di rivoluzionari espatriati in una tranquilla città svizzera, il movimento dadaista, l'opera filosofica di Kierkegaard, e alcune delle scopertepiù esaltanti della scienza del Novecento? Una concezione della scienza che veda in questa unicamente l'esercizio d'una meccanica razionalità formale porterebbe a rispondere che nessun rapporto del genere è manco immaginabile. Chi lo proponesse non farebbe die attentare alla purezza dell'impresa scientifica. In realtà simile concezione della scienza presuppone uno scienziato il quale non è propriamente un essere umano, perché mostra di possedere una mente impermeabile all'ambiente sociale, una mente capace di vita pur senza essere perennemente alimentata dalle idee che circolano tra gli uomini. Ora proprio nel flusso di tali idee la religione e la politica, l'arte e la morale, la filosofia e la scienza vengono a intrecciarsi, a fecondarsi reciprocamente. Dovrebbe allora risultare possibile ricercare in che modo idee provenienti da tutt'altri campi della cultura hanno non soltanto influenzato, ma sono anzi diventate struttura portante di una detcrminata teoria scientifica. E' questa concezione pienamente sociale della mente che il sociologo Lewis Feuer ha posto alla base d'una grande ricerca su Einstein e la sua generazione (il Mulino). Protagonisti della ricerca, insieme con fisici della statura di Einstein, Bohr, Heisenberg, de Broglie, sono i primi trent'anni del secolo, un periodo tumultuoso di rivoluzioni fallite e di altre compiute, di grandi speranze e di terribili delusioni, di nazioni frantumate dalla guerra e di nuovi popoli che si impongono sulla scena del mondo. E, insieme, di grandi mutamenti sociali e culturali, affermatisi nel conflitto con i rapporti sociali e la cultura della tradizione, ma da questi, anche, penetrati e modificati. E' all'interno di tale quadro che sono state concepite le teorie della relatività di Einstein, speciale e generale; il principio di indeterminazione di Heisenberg; il modello dell'atomo di Bohr; il concetto dell'elettrone come onda di de Broglie. Scoperte che non soltanto sono alla radice di molte delle maggiori innovazioni tecnologiche del secolo, dai microcircuiti alla televisione e alle sonde spaziali, ma - siamo soliti dire - hanno pure alterato profondamente la percezione collettiva dello spazio e del tempo, nonché l'idea stessa di conoscenza della natura. Sennonché la questione, alla luce del libro di Feuer, risulta così, mal posta. Non sembrano esser state le scoperte della fìsica a cambiare il senso dello spazio e del tempo, e del rapporto tra osservatore e osservato, bensì una immensa ondata di innovazioneculturale in cui rientrano lo spirito di Zurigo al volgere del secolo - culla pacifica della rivoluzione europea -, l'idea kierkegaardiana di salti qualitativi nella volontà umana e lo sconvolgimento della prospettiva realista operato dalle arti visive. Un certo numero di grandi talenti della fìsica percepì tali mutamenti, ne fu intimamente plasmato, e ne espresse la realtà profonda in teorie scientifiche rivoluzionarie. Elemento chiave della ricerca di Feuer è il concetto di generazione scientifica. 1 giovani scienziati in formazione si trovano davanti a due tipi di antagonisti: i padri biologici e i padri simbolici, ovvero i genitori e gli scienziati della generazione precedente. Per affermare la propria identità lo scienziato in formazione deve operare una doppia rottura, emotiva ed epistemologica. Da solo non può farcela. Non ne avrebbe né la forza né i materiali. Diventa allora determinante il contributo dell'ambiente in cui si forma. Al giovane Einstein esso fu fornito dalla cultura di una generazione studentesca rivoluzionaria permeata dalle idee di Mach, il teorico della conoscenza come pura sensazione, e di Marx. Bohr lo trovò nel grande risveglio di interesse per Kierkegaard che ebbe luogo durante gli anni in cu: frequentava l'università a Copenaghen. 11 principio di indeterminazione di Heisenberg non avrebbe mai visto la luce senza la grande rivolta contro il determinismo e l'ordine che ebbe il suo picco negli Anni 20. Le generazioni della scienza si condensano in quelli che Feuer chiama circoli generazionali. I pensatori originali hanno bisogno dell'appoggio d'un circolo generazionale per portare a maturazione le loro idee ed esprimerle per tempo. Einstein, Bohr e Heisenberg furono sostenuti dalle simpatie generazionali dei compagni dei loro circoli studenteschi, e questo sarebbe uno dei fattori che spiegano la precocità con cui essi pubblicarono i loro articoli rivoluzionari. Darwin e Freud non furono sostenuti allo stesso modo, e quindi pubblicarono i loro contributi assai più tardi, e solo nel momento - ciò vale forse soprattutto per Darwin - in cui temevano di perdere la priorità d'una scoperta. Ciascun circolo generazionale si percepisce come un elemento rivoluzionario, ma in seguito tende a considerare il gruppo successivo di aspiranti rivoluzionari come dei controrivoluzionari. Questo avvenne anche tra le generazioni scientifiche di Einstein e di Bohr, sebbene fossero separate da pochissimi anni (Einstein era nato nel 1879, Bohr nel 1S85). Ad onta delienovità rivoluzionarie introdottedalia teoria della relatività, Einstein cominciò poco più tardi a venir definito, a causa della posizione assunta dinanzi all'indetenninismo insito nelle teorie di Bohr e di Heisenberg, come l'ultimo rappresentante della fìsica classica, un realista superstite. «Dio non gioca a dadi», soleva rispondere a chi cercava di convincerlo che, stando al modello dell'atomo di Bohr, l'elettrone può trovarsi contemporaneamente in più posti attorno al nucleo. Il libro di Feuer torna a conferma dell'ipotesi che, almeno per quanto riguarda il loro nucleo interno, i modelli del mondo e dell'osservatore su cui si basano, le teorie scientifiche non sono abbandonate quando sono confutate da un esperimento, bensì quando le generazioni elicsi sono identificate con esse scompaiono. Il modello dell'osservatore realista cui Einstein si riferiva non fu affatto «superato» dal modello dell'osservatore indeterminista di Bohr e Heisenberg, poiché nessun esperimento avrebbe convinto nessuna delle due parti della validità del modello contrario; semplicemente scomparve con Einstein e con la sua generazione scientifica, anche se sopravvive in qualche piccolo gruppo occidentale, nonché tra i fisici sovietici. La scienza non viene sviluppata in uno spazio vuoto. E' un'impresa collettiva che si realizza in un determinato ambiente sociale e culturale. Comprendere le interazioni tra questo e quella assume un'importanza vitale in un'epoca in cui la scienza appare depositaria, per il meglio o per il peggio, del destino umano. DALBENGA AL balcone si vede un mare blu scuro agitato dal vento. Intorno c'è I quiete. Walter Molino, 75 anni, capelli bianchi e sguardo bonario, viene qui a dipingere in questa stagione senza turismo, lasciandosi dietro il passato di vignettista, caricaturista, illustratore. E dimenticando la frenesia e il vociare delle redazioni. Dice: «Il mare mi ha sempre dato una grande emozione, per quel suo respirare vasto e continuo». La pittura? «Significa aver acquistalo per la prima volta la libertà assoluta dalla condanna di tener dietro all'attualità e alla cronaca. Significa non dover seguire una tecnica adatta alla stampa, pronta per la riproduzione». E tira un sospiro di sollievo, come chi ha deposto un fardello e insegue solo la fantasia. Ma c'è un mercante in agguato che spesso sollecita dei «nudini» di donna e nel salotto attiguo un compito signore in attesa vorrebbe proporgli di disegnare una tavola con una scena epica dell'ultima guerra. La moglie arriva recando il messaggio, lui protesta sottovoce: «Non voglio, non voglio!» Adesso - ci spiega ha dipinto maschere che sono personaggi senza tempo, magari Arlecchino con Charlot, o tre Pulcinella che giocano a carte; ha raffigurato cavalli azzurri e un Cristo che cammina tra la folla distratta, ha immaginato un temporale a Venezia che agita eroticamente gonne e costumi. «Dipingo soltanto. Con i giornali basta». E quale pittura? «Verista, non ho mai cercato le deformazioni. Mi piace fare cose che vengono apprezzate per la loro verosimiglianza». Intere generazioni lo ricordano per le vignette al Bertoldo, le copertine alla Domenica del Corriere che sono ormai un classico dell'immaginario popolare, le storie rosa su Grand Hotel nutrite di passione e lacrime. Sono cinquant'anni di attività ai quali Reggio Emilia, città natale di Walter Molino, dedica da domani (fino al 10 febbraio) un'ampia mostra nelle sale dell'Antico Fero Boario; è un'antologia di 400 pezzi dove si misura il multiforme ingegno dell'artista, dalle vignette a penna alle illustrazioni con china acquerellata, dalle incisioni alle caricature, dai dipinti alle sculture. E dove si specchia in qualche modo il costume degli italiani. Buzzati un giorno ha detto di lui: «E' uno spettatore, non un accusatore, egli registra non giudica né accusa. Tanto più attendibili sono i suoi certificati...». Ma che cosa ha significato lavorare negli Anni Trenta al Bertoldo e dal 1941 alla Domenica del Cornerei Molino torna indietro con la memoria: era ancora un ragazzo quando Carlo Manzoni lo chiamò a collaborare al giornale umoristico fondato da Rizzoli e diretto da Giovanni Mosca e Vittorio Metz. «Facevo «F mrominfopad la vignetta centrale di carattere satirico. Era necessaria una certa abilità nel ritratto». E i bersagli chi erano? «Si prendevano in giro gli inglesi e gli americani. Si bollavano Chamberlain, Churchill, Eden e Roosevelt». E i politici nostrani? «Quelli no, mai». Racconta che disegnando storie umoristiche a fumetti un giorno schizza una figura femminile che seduce i direttori e allora anche le «donnine» - sinuose, provocanti, con gli abiti strettissimi - entrano nel suo repertorio quotidiano. «Le faceva già Barbara sul Marc'Aurelio. A me l'ispirazione veniva guardando le ragazze per strada: prendevo il viso di una e le gambe dell'altra. Mi piaceva presentare la donnina appetitosa, graziosa, ma non volgare». Allora si cercava una bellezza diversa, tutta Due celebri «donnine» di Molino: «Avevano gonne corte e indefinite - racconta sopra il ginocchio. Ma non bisognava esagerare, la censura era severa anche per le scollature». Nell'immagine grande in alto, una delle ultime opere. E' un olio dal titolo «Signore al bar», dipinto l'anno no Di no» che ha successo e provoca una valanga di lettere anche dall'America. E più indietro, negli Anni Quaranta, durante la guerra? «Tra le prime tavoie mi viene in mente una carica di Duba sui cammelli in Africa Settentrionale oppure un fante italiano che lancia bombe contro carri nemici». Soggetti eroici, dunque? «Mi davano il tema in redazione o mi facevano leggere ritagli di giornale. Poi si discuteva insieme». Non ci sono mai state polemiche? «Direi di no. Erano notizie già pubblicate, c'era un filtro di ufficialità». Si sentiva creativo? «Certo i condizionamenti c'erano, ma mi piaceva dare movimento e forza alle figure». Ed era pignolo nei dettagli, si documentava sugli aerei, le macchine, i carri armati. Pur con qualche infortunio. Una volta rappresentando un aereo che mitraglia i nemici si dimentica di mettergli i timoni di profondità e un lettore inviperito scrive al giornale. L'artista confessa anche una distrazione più recente, su Grand Hotel: «Ho raffigurato Giovanni Paolo II che protende le braccia verso la gente, ma in una mano c'erano sei dita. Com'è accaduto? Non lo so nemmeno io. Forse la fretta, bisogna sempre fare le cose a tamburo battente!» Papa Wojtyla gli ha mandato un bigliettino: dice che il sentimento religioso può giustificare anche un dito in più nella mano del successore di San Pietro. Tra le tante etichette ricevute da Molino figura anche quella di «padre di Grand Hóteh, Accetta questa paternità? «Sì, l'accetto perché la prima storia romantica con il fumetto l'ho fatta io e anche la prima testata del giornale». Quelle vicende rosa rivolte al pubblico femminile avevano illustrazioni acquerellate a mezza tinta per dare alla figura più volume, più corposità, quasi una terza dimensione. «Le storie non le inventavo io, gli autori erano altri. Spesso venivano in studio gli editori, i fratelli Del Duca, a chiedermi un parere sulla trama. Mi ricordo che veniva anche un redattore, che si chiamava Zucca, e nei momenti patetici del copione si metteva a piangere». Ma lei non si è mai commosso? «Io vedevo quelle storielle sentimentali con occhio distaccato». C'erano scene spinte? «Proprio no. Forse più tardi, quando è nato il fotoromanzo, si è aggiunto qualche tono più audace. Ma allora erano tutte storie pulite. La prima, mi ricordo, si intitolava Anime incatenate. Anime, capisce?». Molino si alza e ci mostra due acquerelli, due nudi femminili, appena finiti. Le sue «donnine» ogni tanto riaffiorano, indomabili, anche nei quadri. Rimpiange di non fare più tavole sull'attualità? Guarda verso il mare. «Sono contento di aver smesso di farle. L'attualità è una musa crudele. In questo momento dovrei disegnare la tragedia del Golfo...». o nero Ernesto Gagliano e imbronciato

Luoghi citati: Africa Settentrionale, America, Boario, Copenaghen, Reggio Emilia, Venezia, Zurigo