Capriccio al veleno contro la donna di Osvaldo Guerrieri

«Tango misogino», successo all'Adua «Tango misogino», successo all'Adua Capriccio al veleno contro la donna TORINO. Chi dice donna... Qur sto enunciato, con ciò che segue, ha fornito spesso una chiave del rapporto tra i sessi. Suppone una lei devastatrice, un lui vittima e, tra loro, il baratro dell'inimicizia attenuato appena, quando succede, dall'armistizio carnale. Non stiamo a dire quanto possa essere ragionevole una tale «boutade» da operetta. Osserviamo piuttosto che su un concetto come questo, espresso in ogni possibile variante, l'universo maschile ha vivazi;ato con studiata e compiaciuta rassegnazione oppure con stolida vitalità vitellonesca. La prova? Il «Tango misogino» che il Teatro Popolare di Roma rappresenta in questi giorni all'Adua, ospite del Gruppo della Rocca. Scritto e diretto dal trio Pannullo-Pizzirani-Mari, lo spettacolo occupa quella sottile linea franca che corre tra il recital e il cabaret. Oltre a Fernando Pannullo e a Gianfranco Mari, ne sono interpreti Sergio Basile, il «tammorrista» Massimo Carrano e il pianista Giancarlo delle Chiaie, divertentissimo nei travestimenti e chiuso come Bustor Keaton in una imperturbabile maschera. «Tango misogino» assembla e srotola molto di quanto è stato scritto e cantato sulle donne. Da Virgilio a Marziale, dal Savonarola al Folengo a Petrolini, scavalcando secoli e sensibilità, lo spettacolo giunge agli aforismi acri di Kraus e di Flaiano, si insinua fra le morbidezze bistrate e bluastre del bai tabarin, evoca i boa di struzzo della rivista, cita la Magnani e la Wandissima, tritura invettive e cattiverie, riannoda malizie, divarica contrasti. E sempre con quello spillone velenoso nel cervello: la donna è strega, è infedele, traditora, bugiarda, repellente quando ha perso la bellezza. Lo dicono anche i Padri della Chiesa, ben rappresentati nella prima parte dello spettacolo assieme a tutti i classici dell'insulto, allineati con scolastica e un po' noiosa metodicità. La seconda parte è più appetibile e avvolgente. Sarà perché il repertorio si fa I qui più variato, sarà perché cerI ti passi o certe canzoni ci giun| gono più familiari, il fatto è che il clima s'accende e la platea si scalda. Del resto è difficile restare insensibili al travestitismo di Gianfranco Mari, al suo irrompere sulla scena nei più fantasiosi e lussuosi costumi: abitimongolfiera, gonne di spropositata circonferenza, corpetti attillati, scarpe rosse con tacco a spillo, mantiglie e ventagli. Canta bene da tenore e benissimo da soprano, passa con disinvoltura da Monteverdi a Lehàr, da Puccini a Galdieri. Scende fra il pubblico per pudichi coinvolgimenti. Ad un certo punto hai l'impressione che lasci in ombra i pur bravi partners, che la scena sia tutta sua, complici il melanconismo di «Quant'è bella questa Roma», indissolubilmente legata alla voce scura di Anna Magnani, e la scintillante ombra di Wanda Osiris, che lui interpreta con affettuosa ironia e che, alla fine, suscita nel pubblico l'invocazione «Wanda! Wanda!». E l'acrimonia? l'odio? l'invettiva? Si sciolgono con dolce perfidia. Gli eleganti moschettieri di questo capriccio al veleno, schierati in proscenio, dichiarano all'unisono: «Se tutto il male che abbiamo detto delle donne fosse vero, a quest'ora dovrebbero essere perfette». Con questa chiusura si potrebbe quasi ricominciare. Osvaldo Guerrieri

Luoghi citati: Roma, Torino