Jemolo e gli egoismi degli italiani

Il grande giurista liberal-cattolico nasceva cent'anni fa. Così lo ricorda Giovanni Spadolini Il grande giurista liberal-cattolico nasceva cent'anni fa. Così lo ricorda Giovanni Spadolini Jemolo e gli egoismi degli italiani // carteggio con Luigi Einaudi, il sogno di un 'Italia migliore IL vero salto nel buio è in I questo smantellamento I dello Stato, nel conside■ I rarlo come il nemico ■Mi con cui è pietà l'esser feroci, come il creditore che è virtù eludere e lasciare a mani vuote, il debitore verso il qualesi dev'essere implacabili. Cosa ci possa essere al termine di questo cammino, di quest'assoluzione in blocco e generale di chi manca contro la cosa pubblica, proprio non vedo». Sono le parole di Arturo Carlo Jemolo, in una lettera a me indirizzata il 9 gennaio 1957 (quasi trentacinque anni fa, fra le tante che ci siamo scambiate, in quest'arco di tempo e oltre: forse il fascicolo più grosso dell'Archivio di Stato, fra i corrispondenti «esterni»). Jemolo aveva scritto un fondo sulla Stampa, «Babbo Natale». Io l'avevo ripreso sul Carlizio col titolo «Salvare lo Stato» («le giunga il mio pieno consenso»: il «tu» arriverà più tardi, all'inizio degli Anni Sessanta). E quelle parole, rilette a tanti anni di distanza, oggi che ricordiamo il centenario della sua nascita così vicino al decennale della sua morte, appaiono profetiche: e dove ci abbia portato lo smantellamento dello Stato, lo vediamo, ormai, ogni giorno. Lo Jemolo del gennaio 1957 non era ancora* arrivato alle posizioni di ripiegamento pessimistico, e quasi di disperata autoflagellazione, degli ultimi dieci-dodici anni, solcati da una sofferenza indicibile, in cui quasi sembrava riflettersi e consumarsi la tragedia italiana. Era reduce da esperienze di lotta politica vera e propria: «Unità popolare», per esempio, a fianco di Calamandrei e Codignola, i suoi amici del fe¬ delissimo Ponte di Firenze, un movimento costituito per sbarrare la strada, da sinistra, alla legge maggioritaria (mai amata, come mai da Jemolo fu amato De Gasperi). E un anno dopo, o poco più, questo «impolitico» per eccellenza, che non aveva mai ricoperto cariche o pubbliche magistrature (solo commissario dell'Eiar per pochi mesi, all'indomani della Liberazione) correrà per le elezioni politiche del '58 nell'alleanza radicalrepubblicana disegnata per il futuro pri di Ugo La Malfa. Negativa sul piano della raccolta dei voti, non certo su quello del censimento delle intelligenze (in cui fu esperienza forse incguagliata). Uno Jemolo combattivo e aggressivo, quale si rivelerà nella bufera della sentenza sul vescovo di Prato, ancora nel '58, e nel «no» costante e assoluto a ogni degenerazione confessionale, un «no» che il tramontante pontificato di Pio XII alimentava giorno dopo giorno. Nessun rimpianto in lui, cattolico e meglio ancora liberal-cattolico (con tutte le intransigenze separatiste della torinese scuola di Francesco Ruffini in quel diritto ecclesiastico che lo vedrà maestro), di non avere mai militato in un partito ispirato a principi o bandiere cristiane. In una lettera del 13 marzo 1959, mi ricordava il manifesto di Sturzo «ai liberi e ai forti», di cui erano caduti i quarant'anni, mi rivelava anche di aver partecipato a una riunione preparatoria in casa del conte Santucci. «Sturzo parlò, io non m'iscrissi al partito, sebbene votassi per esso nelle elezioni dell'autunno. E credo avessi ra- Arturo Carlo Jemolo fu allievo, a Torino, di Luigi Einaudi gione nella istintiva diffidenza per i movimenti politici di cattolici, che vogliono restare Chiesa fra loro, che non pensano a potersi mescolare agli increduli». Era un linguaggio molto più prudente di quello usato nel marzo-aprile 1948, allorché aveva manifestato in va¬ rie forme una predisposizione a sinistra, fino al Fronte popolare. Straordinaria parabola di una vita inconfondibile. E tutte le contraddizioni dell'azione, del resto costantemente disegnata e ricusata, riscattate da una superba coerenza interiore, di cattolico che non con¬ fonde la sfera della fede con quella del proselitismo politico, di credente che non separa mai la volontà umana dalla grazia, percorso costantemente da una vena di trasalimento giansenista. «Pessimista incorreggibile»: lo definì una volta Edoardo Ruffini, amico e continuatore di una stessa tradizione di pensiero e di dottrina. Portato a vedere nella storia il male, a giudicare - egli cattolico e pur credente nella ragione - gli avvenimenti storici come una proiezione del peccato originale, quasi una predestinazione. E perciò sospinto da una vena permanentemente elegiaca, incline a risognare il passato, a rivivere il decoro e la sobrietà di quella «piccola borghesia» cui si è richiamato Bobbio, dalla quale proveniva e della quale esprimeva l'altissimo impegno morale, la instancabile dedizione, quel senso quasi sacrale dello Stato, quella devozione monastica alla cosa pubblica. In tutte le sue espressioni, la preminenza mazziniana dei doveri sui diritti. Non a caso Jemolo è fra i primi cattolici che si oppone alla follia delle leggi razziali; fra i primissimi, all'indomani della Liberazione, che auspica il superamento delle barriere concordatarie, il ritorno a quelle regole di libertà religiosa che egli ha costantemente difeso e illustrato nel magistero accademico, fra Sassari e Bologna, fra Milano e Roma. Sono ancora del 1944 le pagine invocanti una diversa '•pacereligiosa» in Italia. Alla fine degli Anni Settanta raccomanderà agli amici, più di lui perplessi e diffidenti, di non porre ostacoli - ho altri documenti in materia - al varo del compromesso Andre-otti sulla bozza del nuovo Concordato, che poi passerà col governo Craxi. La sua morte si colloca sullo sfondo dell'Italia del terrorismo e della violenza, dell'Italia del delitto Moro, dell'Italia dei «nemici della ragione» come egli amava chiamarli: l'Italia devastata dalle Br e minacciata dall'inflazione, l'Italia percorsa da una ventata di irrazionalismo in cui rischiavano di smarrirsi i valori più alti e austeri della democrazia. Ancora poche ore prima di morire confidava a un giornalista suo amico: «Ho sperato che la lezione dell'ultima guerra avesse mutato gli italiani, oggi mi paiono più egoisti, con minoresenso sociale minore capacità di accettare una disciplina, che non fossero all'inizio del secolo, ai tempi di Giolitti». * * * Lo Jemolo giornalista, il grande giornalista fra gli Anni Cinquanta e la fine, ha avuto due tribune: La Stampa, per tutti i commenti di getto, e la Nuova Antologia, per le pagineriflessive o d'insieme. E la pubblicazione, ormai avviata da oltre un anno, dei suoi straordinari e illuminanti carteggi consente alla Nuova Antologia, che è trimestrale, di continuare ad ospitarlo quasi in ogni numero. Tanto è vero che, neanche spentasi l'eco del singolare carteggio con Paolo Baffi, e della disperata solidarietà con l'amico, il fascicolo che uscirà il 15 marzo raccoglie l'intero carteggio con Luigi Einaudi, grazie non sol') all'Archivio dello Stato di Roma ma alla FondazioneEinaudi di Torino. Un carteggio che va dal 1922 al I960 e in cui sempre ritorna l'ossequio devoto dello studente dell'ateneo torinese degli Anni Dieci al maestro di ieri, considerato come si usava una volta maestro di sempre. Ritrovo una lettera a me del 22 agosto 1963. Ringraziandomi di uno scritto einaudiano, Jemolo ricorda «l'Einaudi chc faceva lezione alle otto di mattina nell'anno 1908-1909 eche aveva la frase mozza, la pronuncia terribilmente piemontese, con le e e le 0 strettissime, ma con una lucidità di concetti, un'incisività che i princìpi appresi in quelle lezioni più non si cancellavano». Col tempo - insisteva Jemolo - Einaudi aveva acquistato «una sua eloquenza, aliena da ogni retorica, spoglia, ma eloquenza». Eloquenza e mai retorica. «Avversione alla retorica - continuava in quella lettera -; rivedere per la ristampa i vecchi articoli giornalistici per togliere aggettivi e maiuscole; donna Ida mi appoggiava perché almeno rispettasse "Stato" onde distinguerlo da "stato"; no, pure quella maiuscola doveva venir meno». L'amore per Torino: una costante. «Venire a Torino? Torino e rimasta per me la città incantata dell'adolescenza e della prima giovinezza... - scrive Jemolo a Einaudi il 24 aprile 1932 a proposito di una possibile chiamata - una città di sogno e di prodigio agli occhi del mio bambino, che non l'ha mai vista». Le ristrettezze della vita e le necessità della professione legale - con quei compensi minimi che egli chiedeva - lo legarono a Roma. Ma egli resterà sempre l'abitante di un'altra Italia, di un'Italia per metà vissuta e per metà sognata: solitario profugo in un'isola remota dell'anima. unico ufficio stampa, alla Presidenza del Consiglio. Quando col vento nuovo del 1919 qualche Ministro tentò di mettere su embrioni di uffici legislativi, o di uffici stampa, o di uffici per le Nuove provincie, venne dalla Presidenza ordine perentorio di smettere. Oggi ce ne sono dovunque, non solo nei Ministeri ma nei Sottosegretariati. Ed alcuni li ho visti funzionare proprio male. Ma pur di creare posti a Roma tutto va bene; e poi si piange per i tribunali che non hanno giudici. Circa le dottrine che conducono fatalmente anche alle peggiori aberrazioni e quelle che vi giungono rinnegando le loro premesse, mi permetterei di porre io una domanda: se ci siano uomini che vivano veramente ancorati ad una dottrina, mossi da una dottrina. E' un punto che mi assilla dalla prima giovinezza, questo di sapere quanto possa su noi la ragione, quante volte la nostra ragione non sia l'ancella del sentimento, che la porta a rinnegare se stessa. Niente m'impressionò come, 45 anni or sono, la crisi dell'intervento in quanto portò a sra- Giovanni Spadolini Luigi Einaudi: «Il comunista, il credente dell'idea del sangue, razza ecc. (Hitler), il cattolico del Sillabo sono coerenti quando negano l'infedele, l'eretico e lo vogliono distrutto». gionare alcuni che mi erano sempre sembrati maestri di equilibrio. Spero di veder ristampati gli articoli Suoi di quel periodo, ch'erano un miracolo di buon senso (ne rammento uno, sul divieto di traffico di commercio con i nemici, pieno di esperienza e di ragionevolezza: divieto di commercio con l'estero là dove si pensa che indirettamente giungerebbero al nemico merci atte ad accrescere la sua efficienza; ma se giungeranno loro pettini per le irte chiome od altre simili cose, ed in compenso verrà latte per i nostri bambini, allora non tronchiamo anche questo commercio). Ma accanto a Lei che giudicava alto e pacato, quanti Suoi colleghi e miei maestri anche illustri non avevano perduto la testa! Cercherò di tenere ogni conto dei Suoi consigli; ma, come ben sa, l'articolo esce quasi spontaneo, sfugge un po' di mano. Ossequi a donna Ida anche da parte di mia moglie, e fervidi auguri di buone vacanze. Con profonda devozione e rispettoso affetto Suo A. C. Jemolo