K-Day solo il silenzio nel Capodanno della paura di Furio Colombo

K-Doy, solo il silenzio nel Capodanno della paura K-Doy, solo il silenzio nel Capodanno della paura 77Presidente tace, un'America rassegnata conta le ultime ore IL presidente Bush stanco e spettinato passa sul prato della Casa Bianca. Per caso un aereo non smette di volteggiare nel cielo. I giornalisti gridano le domande ma il Presidente, assorto, di profilo, non può sentire. La moglie Barbara è nell'inquadratura, su una sedia a rotelle. La spingono verso il marito, poi dalla parte opposta. Lei tira su la coperta e sorride con imbarazzo. I giornalisti gridano di più per fare arrivare le domande, i cani abbaiano e il collegamento finisce. Il presidente Bush ò seduto in una stanza della Casa Bianca piena di giornalisti. Persone che non si vedono protendono i microfoni. Un tecnico, che deve essere sdraiato sul pavimento, spinge più avanti una «giraffa», su cui c'è un microfono imbottito di gommapiuma. 11 Presidente allunga la mano, carezza lo strano oggetto, sorride distratto alla telecamera. «Il Presidente non si può raggiungere. Sono ventiquattro ore che cerco di raggiungerlo con una telefonata», mi dice irritato un senatore che al Congresso ha guidato la battaglia per sostenere il potere costituzionale del Presidente di dichiarare la guerra. Il Presidente, oggi, preferisce non comparire, spiega qualcuno che gli è molto vicino, un amico personale che parla al telefono con lui «tutti i giorni». Anche l'amico ha un suo aneddoto. «Sabato scorso abbiamo parlato quaranta minuti. Mai, mai una volta ha accennato al Golfo». «Ho sentito uno che è molto vicino a Saddam Hussein - fa sapere Pierre Salinger, l'ex portavoce di Kennedy che da anni fa il giornalista a Parigi -. Mi ha detto che una via d'uscita c'è. Il presidente Bush deve telefonare subito a Baghdad. Stanno aspettando quella telefonata». Comincia la ridda delle voci. L'ha messa in moto la domanda che, nell'ultima conferenza stampa, una giornalista ha lanciato a Bush con apparente tono mondano. «Presidente, che cosa farà la notte del 15 gennaio?». Bush ha opposto uno dei suoi sorrisi malinconici di questi giorni. La ri- sposta avrebbe svelato una strategia. Intorno a quella strategia passano, come un vento, le voci degli esperti. «Subito non è subito», dicono. L'esperto di Washington sostiene che il giorno sarà giovedì. «Dopo la scadenza, dopo un silenzio destinato a disorientare. Ma prima del fine settimana. Prima che si possa cadere nella impressione che niente succede». Il commentatore sportivo apre la sua parte di notizie con un annuncio. Dice: «Lo sport non resta fuori dalla storia. Il Superbowl, previsto per domenica 27 gennaio, sarà rinviato». L'ultima pattuglia di pubblico assente dai programmi della vigilia deve voltarsi verso lo schermo delle notizie di guerra, perché si svuoterà quello delle notizie sportive. Il Superbowl è la grande partita che festeggia la stagione del football, il momento alto del girone sportivo d'inverno. La signora dei programmi pomeridiani per casalinghe, la popolarissima Ophra Winfrey, annuncia che il tema di oggi è «aiuto reciproco in tempo di guerra. Come esprimere la tensione ai vostri vicini». Il problema è talmente grande che la cattedrale di San Patrizio a New York ha istituito uno speciale numero di telefono. Anche molte parrocchie lo fanno. Si chiama uri numero, si parla della paura, qualcuno invita alla preghiera e all a fiducia. Qualche volta risponde una voce registrata. Ho ascoltato alla radio' l'annuncio delle misure di sicurezza che stanno per essere adottate a New York, sono andato a vedere. La casa in cui abita la delegazione palestinese alle Nazioni Unite è tagliata fuori da un nastro giallo che impedisce di avvicinarsi. Poliziotti a piedi e una siepe di automobili bianche e blu e della polizia di New York bloccano una parte di Park Avenue e isolano anche l'ambasciata sovietica alll'Onu. Nel grattacielo della Exxon, sulla Sesta Avenue, uomini di uno speciale servizio controllano i documenti di coloro che entrano. Chi esce deve firmare un registro. Chiedo Manifestanti pacifisti bruciano la bandi al capo del servizio, un uomo di statura imponente, con la giacca blu chiara, come tutti gli addetti al controllo, qual è il criterio che 10 guida nello scrutinare coloro che vogliono entrare. L'uomo (che, mi racconta, si è trasferito a New York da Panama cinque anni fa) mi spiega: «Stiamo molto attenti agli accenti stranieri». E si volta a gridare in spagnolo di fermare qualcuno che stava entrando in un ascensore. I bambini delle scuole di New York cominciano a ricevere lettere dei soldati dal fronte, a volte come risposta a una iniziativa della maestra, a volte perché al soldato era rimasto in mente, con nostalgia, l'indirizzo della scuola. Una lettera dice: «Sono il sergente dell'esercito Arlen Herbst. Sono un esperto di lingua cecoslovacca. Il mio compito, in caso di guerra, è quello di intercettare le comunicazioni del nemico. Siccome parlo bene 11 ceko, sarebbe stato facile per me, in Europa. Mi rendo conto che, qui, nel deserto è un po' più era americana durante un corteo a Chicago difficile». Un'altra lettera dice: «Ti interesserebbe sapere che effetto fanno le vostre lettere quando arrivano a noi. Vedi, io ho una gran paura che mi succeda quello che è successo a mio padre nel Vietnam, tante feste quando è partito, e poi lo hanno abbandonato laggiù da solo, come se fosse stato lui ad avere commesso uno sbaglio. Bagazzi, fate in modo che a noi non succeda. P.S. Guarda che non sono molto più anziano di te. Ho un mio gruppo "rock" che si chiama "Woodoo Meat Bucket". Tuo Dave Pederson». Ui-a insegnante di Bye Neck, la scuola a cui sono arrivate queste lettere, commenta: «Ogni generazione ha un suo modo di farsi un'idea della guerra. Per i miei bambini la guerra è questa: si scambiano parole grosse, si stabilisce una data, si va a letto. E la mattina dopo c'è la guerra». Gli aeroporti di New York sono affollati all'inverosimile di gente che arriva da Ryad, da Tel aprono dalla Giordania, dove c'è, pacato e disposto a vedere e riferire ogni cosa, il loro «anchor man». Si collega con Baghdad, dove un inviato spiega con pazienza lo stato d'animo «tranquillo» degli iracheni. Si collega con Gerusalemme, e si vedono le lunghe file negli aeroporti. Un adolescente israeliano si ferma, si volta, ha queste due risposte. «Certo che ho paura. Cosa vorrei fare? Pregare». Si vedono cinquantamila ebrei ortodossi davanti al Muro occidentale, chinano in fretta la testa, pronunciano rapidi le parole delle preghiere. Il tempo incalza e loro incalzano Dio. Ci collegano col deserto. Ragazzi che non hanno ancora finito di farsi crescere i baffi gridano al microfono parole spaccone («Li facciamo fuori nei primi minuti») e parole di ansia. Qualcuno non capisce il perché della guerra e lo dice. Sulle colline di Amman, evidentemente il posto preferito dalle televisioni americane, perché si vede anche il paesaggio, Ted Koppel, giornalista della Abc-Tv è seduto a tavola con sei esponenti palestinesi (la ragazza più bella porta un kefia su un Armani). A uno a uno, in inglese eccellente spiegano agli americani che «l'entità sionista» deve essere cancellata. Sono sereni, espressivamente molto eleganti. La notizia dell'assassinio a Tunisi di due capi di Al Fatah attraversa l'immaginario della gente come se ogni guerra richiedesse di passare per tutti i riti della vigilia, compreso il momento di Sarajevo. Il mondo neutrale degli «anchor menu si passa il messaggio, ciascuno in cerca di un commento dall'altro. Il senso di tensione lo rappresenta Tom Brokaw della NbcTv. Da Amman alza la testa dai suoi appunti (è all'aperto, ha la notte alle spalle) e dice: «Non ricordo alcun momento della mia vita in cui ci sia stato un pericolo così grande e così poco controllo». E' il senso dello spazio vuoto, che sta prendendo il sopravvento. Chi doveva parlare ha parlato, i rappresentanti della CameI ra e quelli del Senato. Hanno [FOTOAP) Aviv, da Amman, decine di migliaia di persone che devono fare code lunghissime all'immigrazione, bambini in pigiama con i giocattoli sotto il braccio, cow boys con la chitarra, ragazze filippine, Sigh col turbante che - si dice - hanno pagato mediatori di tutti i tipi per trovare l'ultimo posto. Pan American c Twa da oggi non volano più. Alcuni voli sono stati cancellati dalle linee aeree. La frase che usano tutti è «tempo in prestito». Dopo la mezzanotte del 15 gennaio si vive in un «tempo in prestito». E' la frase che negli ospedali americani i medici usano per le malattie gravi. La frase è stata detta dal segretario di Stato Baker, intendeva metterla a carico degli iracheni. Ma i media americani se ne sono impossessati, la ripetono in ogni programma. I media sono neutrali. Giornalisti americani sono a Baghdad, sono ad Amman. Il telegiornale della Abc e quello della Nbc parlato i commentatori, e ha parlato, quasi con disperazione, Perez de Cuéllar. Ross Perot, ex vicepresidente della General Motors, fondatore dell'azienda elettronica Data Processing, finanziere d'assalto, ha fatto produrre uno spot pubblicitario contro la guerra: si vedono malines in alta uniforme che portano a casa i loro compagni caduti. Molte televisioni non lo hanno accettato. Si sa che il Presidente non farà conferenze stampa o dichiarazioni. Si riuniscono il segretario di Stato e quello della Difesa, ma non hanno niente da dire, né prima né dopo. Ognuno viene definito «esausto». «Attenzione a questa impressione del tempo distorto», avverte un generale che ha fatto il Vietnam. Quando saremo dentro, ci accorgeremo che il tempo non passa mai. E' lungo, come in un incubo, coprire cento metri di strada, in guerra. «Qui c'è un brutto umore, come va da voi?», chiede l'uomo di Atlanta all'uomo di Baghdad nel collegamento televisivo che si ripete senza fine. «Umore pessimo, grazie». La voce di Baghdad è quella dell'«anchor man» Barnard Sghaw. Sullo schermo si vede solo la fotografia. Lui parla al telefono, lento, quieto, descrivendo ogni piccolo mutamento. Accendi il televisore a qualunque ora, lui è lì che parla. Per il momento gli americani devono a lui l'equilibrio psichico. C'è chi progetta di lare assegnare a Ted Turner, l'impresario e padrone della catena televisiva Cnn, il Nobel per la pace. Alcuni americani autorevoli hanno già presentato la petizione a Stoccolma. «Visto il modo in cui stanno andando le cose, a chi, se no?», ti domandano. Trascorrono lentamente le ore verso il nuovo Capodanno. E' stato annunciato che il tempo ufficiale è quello di Washington. In quel momento saranno le sei del mattino a Roma, le otto del mattino a Baghdad. Un problema dell'ultimo momento: con che pubblicità si va in onda a cavallo di mezzanotte? Furio Colombo