Baghdad cuore calmo dell'uragano di Giuseppe Zaccaria

La gente rientra frettolosa dai cortei «per la vittoria» e la guerra scompare dalla tv La gente rientra frettolosa dai cortei «per la vittoria» e la guerra scompare dalla tv Baghdad, cuore calmo dell'uragano «Prezzi speciali» in un negozio Il ministro: abbiamo i kamikaze «motor road», la stradina in cui si allineano tutti i negozi che vendono pezzi di ricambio. C'è un vecchio racconto di fantascienza in cui si immagina che un'astronave aliena fotografi il mondo dall'alto e seguendo i movimenti delle sue creature, notando gli assembramenti intorno agli stadi, osservando come i flussi si svolgano sincronicamente nelle stesse direzioni, conclude: l'abitante della Terra si chiama automobile. Da ieri, Baghdad è esattamente il territorio di quel racconto. Non le astronavi ma certo i satelliti-spia americani avranno già trasmesso al Pentagono le panoramiche di una città che potrebbe essere stata immaginata da De Chirico. Un po' al di là del centro occupato dalla manifestazione, sotto monumentali palazzi vuoti, rari passanti camminano rasenti ai muri. Il vero abitante di Baghdad oggi è l'automobile. Su sterminate corsie trasformate in piste, a dominare la scena sono rimasti i taxi, i camion dell'Armata che conducono alle esercitazioni torme di giovani eccitati (sono i «ragazzi del '73», i diciassettenni che Saddam ha appena chiamato alle armi), le grandi berline traboccanti di masserizie che ancora si dirigono verso Nord. Nella «downtown» un camion si ferma e scarica acqua minerale che poche, rapide mani immediatamente portano via. Ad un passo dalle poste centrali, sorvegliate da uomini armati, il cofano di una vecchia «Cadillac» ingoia ingordamente pacchi di derrate che non possono essere frutto di tessere annonarie, ma che i soldati non degnano di uno sguardo. I negozi hanno abbassato le serrande, dietro molte finestre del centro storico si vede balenare l'algido riflesso di misteriose vetrate mobili. Ci vuole un po' di tempo a capire: a Baghdad, la gente sta incollando cortine di plastica dietro le finestre. Al numero 16 di Al Mansoor, c'è un negozio aperto: lo si può agevolmente notare dal via vai di persone che sotto il braccio portano tappeti arrotolati e li gettano in fretta su un camioncino. La «al-Bagdadi Gallery» sta smobilitando e la barba grigia di Safeh, il proprietario, si agita al ritmo delle imprecazioni. Di pari passo col terrore dell'attacco montano il timore degli accaparramenti, lo spettro dello sciacallaggio. Lo si legge sulle facce, ma le parole dicono tutt'altro. «Co^a succede? Niente, ci prepariamo a chiudere. Per la guerra? No, solo perché in questi giorni non ci sono clienti». Vassoi d'argento sono ammassati in scatole di cartone, preziosi «bukara» vengono portati via come stracci. «Cosa fa, vuole comprare? Guardi che oggi i prezzi sono davvero speciali». Speciali quanto? «La metà, forse un terzo del normale. Guardi questi bicchieri, glieli peso. Vede? Farebbe 5 mila dinari, glieli dò a 2500... No, 2 mila». Ma se torno domani? «Domani potrebbero essere più alti, o forse più bassi, potrebbero non esserci, potrei non esserci io, potrebbe non esserci lei, potrebbe non esserci più nulla. Non vuole? Allora scusi ma ho da fare. Lei è italiano? Good luck, buona fortuna». Fra gli occidentali che sono ancora qui, molti ormai esibiscono uno stato etilico permanente, nell'unico ristorante aperto del più lussuoso albergo della città il vecchio pianista continua ad accennare esausto canzoni Anni Quaranta, come sopravvissuto alla sceneggiatura di chissà quale vecchio film. Come motivo dell'esistenza ormai si riesce ad inventarsi solo l'ultimo affare, il «pezzo» pregiato strappato a poche centinaia di dollari. Il Bolex d'oro ottenuto a quattro soldi che porta ancora, dietro la cassa, un segno che potrebbe benissimo essere stato il sangue di un kuwaitiano. Ma forse, quel sangue è una patacca. Il governo del Kuwait in esilio dice che qui sono stati deportati 10 mila dei suoi cittadini, e che i nuovi «scudi umani» saranno loro. Se è vero, non si vedono. E' agevole imbattersi piuttosto in quegli indiani, pakistani, bengalesi che continuano a lavorare nei ristoranti o negli alberghi e non riescono ad andarsene, non solo perché il biglietto costa 570 dollari ma perché non hanno speranza di ottenere il visto. Anche fra i pacifisti più convinti sembra cominciare a diffondersi il germe dell'inquietudine. Ieri mattina, al campo di Al-Yarma, 400 chilometri a Sud di Baghdad, proprio alle frontiere con l'Arabia Saudita, monsignor Hilarion Capucci, vescovo di Palestina, ha celebrato una Messa che avrebbe potuto rappresentare una grande sfida, non fosse stato per il fatto che a parteciparvi era appena un centinaio di persone, tutti occidentali, tutte coperte dalla «kefjah» palestinese o delle magliette «no war for oil». E' rientrato stanco a Baghdad, il vescovo maronita. Ma per la prima volta in numerosi viaggi in Iraq, ieri sembrava anche Ritratti di Saddam Hussein e bandiere americane bruciate a Baghdad dove si sono svolte oceaniche manifestazioni a sostegno del dittatore Secondo il regime sono scese in piazza in tutto il Paese 5 milioni di persone preoccupato. S'è rivolto a giornalisti che conosceva, fra cui chi scrive, per chiedere: «Allora, quando si parte?». Nonostante la stanchezza avrebbe voluto mettersi subito in marcia verso la frontiera giordana. Poi ha chiesto se sull'aereo privato, atteso oggi all'alba, ci sarebbe stato posto. Infine si è rassegnato ad attendere (o a sperare) nel prossimo volo di linea. Sarà solo un'impressione, ma stasera anche gli speaker della tv paiono più tesi del solito. Al posto dei due soliti annunciatori baffuti, c'~ 'ma donna dai capelli rossi che compita notizie con l'entusiasmo con cui si leggerebbe un calendario. Ecco forse una vera novità da Baghdad: stasera, forse per la prima volta, la tv irachena non manda in onda neppure un'immagine del Raiss. E pur di non affrontare l'argomento guerra, non riserva il minimo accenno alla notizia che sta facendo il giro del mondo. Le agenzie occidentali hanno diffuso una dichiarazione di Muzahim Saab Hassan, il comandante dell'aviazione di Saddam Hussein. Alla vigilia dell'ultimatum, il maggior generale fa sapere al mondo che anche l'Iraq ha i suoi «kamikaze». «L'aeronautica irachena - dice - dispone di un collimando suicida: abbiamo un gruppo di piloti che sono soltanto in attesa del segnale per lanciarsi coi loro aerei contro obiettivi già stabiliti». Non è difficile immaginare quali potrebbero essere questi obiettivi, a partire dalle raffinerie e dalle «pipelines» dell'Arabia Saudita. Ma la minaccia a quanto pare era destinata al mondo esterno: se davvero esiste questa squadra di esaltati, il pubblico della televisione irachena non lo sa. Appena fino a ieri, i telegior¬ nali mitragliavano immagini di Saddam che incontrava gli yemeniti (breve annuncio, immagine, scambi di saluti e poi a coprire il sonoro serene musiche del Settecento veneziano), che salutava Ortega (annuncio, saluti, musica da camera), parlava ai giornalisti (saluto, musica, battuta con grandi risate, musica, stop), abbracciava una vecchietta, incontrava i generali (non più Vivaldi, ma fanfare). Adesso il Capo non appare, ma in compenso il notiziario sembra confezionato per la Svizzera romanda. Crisi, ultimatum, guerra? No. Gli iracheni devono sapere (prima notizia) che a Baghdad è appena giunta una delegazione di «verdi» dalla Gran Bretagna. Che in Giordania, Tunisia, Yemen (seconda notizia) ci sono state manifestazioni proSaddam. Che a Chicago, Los Angeles e New York (terzo servizio, con un intervento della polizia a cavallo proposto più volte) anche i cittadini americani hanno chiesto la pace. Altre dal mondo: nelle Filippine Corazón Aquino prega perché la crisi si risolva pacificamente. Al Palazzo di Vetro (nona notizia, circa venti secondi) l'Onu è riunito per discutere una proposta francese. Il prezzo del petrolio è salito a New York fino a 31 dollari al barile, a Londra è fermo a 27. Tutto qui. Gran finale con la canzone che Saadum Jabel, il famoso «folk singer» in giacca bianco-lucido, canta come un'aria d'amore e che dice: «Non dobbiamo avere paura, Saddam sarà la bandiera degli arabi fino alla vittoria, tutti gli arabi canteranno il nome del Presidente, tutto il popolo salirà alle stelle». Speriamo che gli americani non la prendano alla lettera. Giuseppe Zaccaria

Persone citate: Bolex, De Chirico, Hilarion Capucci, Mansoor, Muzahim Saab Hassan, Ortega, Saadum Jabel, Saddam Hussein, Vivaldi