Il nostro inviato nella ex caserma presso Berlino che raccoglie gli israeliti profughi dall'Urss di Fulvio Milone

Il nostro inviato nella ex caserma presso Berlino che raccoglie gli israeliti profughi dall'Urss Il nostro inviato nella ex caserma presso Berlino che raccoglie gli israeliti profughi dall'Urss ERKNER (Berlino) DAL NOSTRO INVIATO Di tutto quel che aveva nella sua casa del Kievski Rayon, a Mosca, Vera ha portato con sé soltanto i vestiti e una piccola scatola di metallo verde a fregi neri, quella del «grusinski ciai», il tè georgiano che era sicura di non poter trovare qui, e che adesso le serve per le pastiglie di gomma colorata. Il resto, quel che si mette insieme un po' alla volta in una vita fatta di abitudini che parevano destinate a non cambiare mai, le è servito per pagarsi l'invito di una coppia tedesca della Ddr prima che il governo di Berlino Est spianasse la via all'immigrazione, l'estate scorsa, e poi il viaggio, quaranta ore di treno attraverso Minsk, Brest e la Polonia fino all'Ostbanhof della Holzmarktstrasse. «Non potrò più riavere niente perché sono sicura che non tornerò mai indietro, a Mosca o in Russia», dice quando le si chiede se non è stato un modo violento e doloroso per cancellare un po' della sua vita, per vendersi gli anni e il passato. Vera ò ebrea, come tutti i trecento sovietici raccolti in questa ex caserma della «Nationale Volksarmee», l'esercito di Honecker cancellato dalla storia, che passerà ora all'amministrazione del governo regionale di Berlino. Ha forse quarant'anni, ma l'immalinconisce parlare dell'età e non la dice. A Mosca, dove si era diplomata in economia e lavorava in una banca, ha lasciato un fratello che non l'ha seguita ancora e forse non verrà perché «sente di non riuscire a farcela, di non poter partire e lo capisco, non vuole lasciarsi tutta la vita alle spalle». Ma il suo addio all'Urss di Gorbaciov non è davvero una fuga. E', piuttosto, un rifiuto del Paese e della sua disgregazione, è «la paura di finir male non perché sono ebrea ma perche sono sovietica», e dunque «un modo per cercare altrove quel che laggiù stava morendo», «un modo per togliersi dallo sfascio», ma anche di «ricominciare e cercare alla fine di sistemarsi, in pace». Un sogno forse, un'immagine semplificata del futuro che è comune a molti, qui; ma Vera sta bene, adesso, in questa stanza rivestita di linoleum e arredata con due brande, un tavolino con la cerata a fiori e due sedie, un armadio ad ante e uno scaffale con tre ripiani in legno chiaro dove, accanto alla scatoletta del «grusinski ciai», ci sono soltanto quattro tazzine da caffè e un bricco a fiori blu, «il regalo di qualcuno». La finestra guarda l'abbandono desolato del cortile, la montagnola artificiale fatta forse di rifiuti, di un po' di terra e un velo d'erba, il piazzale di cemento dove un tempo sostavano i carri dell'esercito popolare comunista: deserto, adesso, come le baracche affacciate al bosco e ancora circondate dal filo spinato; in abbandono come la torre di ferro per le telecomunicazioni. Animato soltanto, alle volte, da persone che sostano a gruppetti nel cortile fra le quat- Un convegno sui tra palazzine grigie, come fossero sempre state insieme: con la stessa rassegnazione, si direbbe, di quand'erano ancora in Urss. Sembra un angolo di Russia, ma l'Urss dell'ufficialità amministrativo-socialista, dei prefabbricati fatti per durare un soffio e destinati subito a sbrecciarsi, a diventare tetri luoghi di rovina. E' russa l'aria e l'atmosfera, sembra russa perfino la cortesia ruvida della portiera che si affaccia alla guardiola e che tutti chiamano «dijurnaia», come fosse delle loro. ra Un'immagine che per anni ha rappres Dal luglio scorso 3700 immigrati La caserma di Erkncr, invece, come gli altri centri di raccolta sparsi intorno a Berlino - a Tempelhof e a Zahlendorf, a Hessenwinkel e a Marzahn -, è un luogo meticcio dove s'intrecciano paesaggi e luoghi della storia. Un'isola nel tempo diventata il principale nucleo di accoglienza per gli ebrei sovietici che hanno scelto la Germania come Nuova Gerusalemme: secondo l'ultimo censimento del «Beratungstelle» di Berlino (il Centro di consulenza aperto, per un'ironia sinistra degli eventi, in quello che fu il ministero della propaganda di pporti fra sesso e ter entato II simbolo della tragedia vissuta dagli e Joseph Goebbels), sono arrivati dall'Urss oltre 3700 ebrei da quando l'ex premier della Ddr, Lothar de Maizière, concesse il diritto alla «residenza permanente», nel luglio scorso. Ma presto potrebbero diventare decine di migliaia e ricostituire, in parte almeno, la robusta comunità di un tempo (gli ebrei in Germania erano 600 mila nel 1933, alimentati anche dall'emigrazione russa provoca ta dai pogrom; adesso sono trentamila). Nelle ultime settimane ne sono arrivati anche cento al giorno, con l'urgenza di chi temeva che «la porta si sarebbe di nuovo chiusa»: il temuto «contingente annuo» non c'è stato, invece, le domande degli immigrati ebrei d'orinnanzi saranno considerate «caso per caso ma su una base generosa»: senza limiti o quote fisse che sarebbero stati «una risposta sbagliata a un problema tanto sensibile», come ha detto il ministro degli Interni Schaeuble. Ma la voce che «la Germania unita stava per annullare la generosità della Ddr di Lothar de Maizière» si era diffusa fin nella provincia russa più remota, racconta chi è arrivato da poche settimane, e per molti è stato il panico. Grigory confessa di essere partito da Leningrado, in novembre, soprattutto per za età smentisce un vecchio luogo comune brei sovietici: manifestanti a Mosca chi «non perdere un'occasione che forse non sarebbe più tornata nel futuro prossimo; credevo davvero che sarebbe stata l'ultima possibilità di andarmene dall'Urss. Non ho voluto rischiare: perché avevo e ho il timore della fine, il timore che tutto stia per crollare, lassù. E poi, potevo sottrarmi finalmente a quella diffidenza verso di noi che alle volte diventava sfida, insulto». Per esempio? «Per esempio le minacce di Pamyat, un gruppo antisemita che non è solo folklore come si vorrebbe far credere alle volte. Minacce non sempre pacifiche e verbali, intimidazioni che avevo l'impressione fossero in molti a sostenere, ad appoggiare, almeno, con la complicità del silenzio. Come se ci fossero dovute». Perché non andare in Israele, allora? «Perché l'hanno fatto in troppi, e tutto è più difficile laggiù, ci hanno raccontato, a cominciare dal lavoro: chi c'è arrivato non sempre è soddisfatto, e qualcuno se ne va». A Erkner, Grigory vive probe bilmente peggio di quand'era in Urss, dove era architetto: divide una stanza con la moglie, come lui di mezza età, e pochi «oggetti salvati alla meglio»; senza più un ruolo che non sia la sua identità di emigrante o profugo o Arrivare a Erkner vuol dire «passare attraverso le età dell'uomo», come ironizza Igor, che quando lascia la caserma e va a Berlino è ammaliato dal progressivo ingresso nell'abbondanza manifesta, una iniziazione, quasi, che passata la Potsdamerplatz e il Tiergarten, alla fine esplode nel caos mercantile del centro occidentale, verso Charlottenburg, il Kudamm e poi lo Zoo. Igor viene dall'Azerbaigian dov'era insegnante di scuola media. E' colto e parla volentieri, fra punte frizzanti di ironia e sfoghi di amarezza. E' dovuto partire, racconta, perché più dell'antisemitismo soffriva il problema nazionale. Ricorda l'orrore di certe notti di violenza, la battaglia all'improvviso e le sue grida, gli spari e «il desiderio di colpire, la voglia di far del male e la follia che copriva la città». Racconta i raduni sulla piazza Lenin di Baku enorme e tetra, le bandiere verdi e i ritratti di Khomeini sventolati «come una dichiarazione di morte», e poi la città devastata, i feriti, il sangue. Immagini e spettri che l'hanno accompagnato qui. «Sono scappato perché era impossibile restare», dice senza più emozione. Immaginandosi che cosa, soprattutto? «Un Paese silenzioso, gente capace di parlarsi. Rispetto e una vita regolata, normale, fatta di giorni uno dopo l'altro, una famiglia». Non sarà facile trovare tutto insieme, e lui capisce che è così adesso, ma «tornare mai». Lasciando l'Urss per questa nuova Germania potente e dorata - disposta ad accoglierli senza grandi formalità ma col peso greve di una colpa che non si è ancora cancellata -, Igor e gli altri come lui avevano anche un compito traslato e collettivo, e venire qui significa forse saldare un conto della storia. Ma il loro ingresso in un Paese simbolo, luogo della persecuzione e del massacro, non è anche un'irruzione nel passato, un modo per ripensare alla propria identità di popolo inseguito dalle tremende risonanze della violenza e del dolore? Victor, un cinquantenne appena pingue che in Urss era tecnico alle ferrovie, risponde di non aver provato ansie o angosce entrando a Berlino, perché «i tedeschi hanno molto sofferto anche loro e la guerra è stata una lezione tremenda». Altri credono che la gente di adesso sia cambiata, qualcuno rende omaggio alla grande cultura dei tedeschi, molti insistono sulla generosità della nuova Germania. Nessuno pensa davvero che la persecuzione contro gli ebrei potrà mai ripetersi, qui; nessuno crede che qualcosa di simile al nazismo potrà mai crescere di nuovo, cinquantanni dopo la tragedia della guerra, anche se Igor dice a bassa voce una cosa che forse qualcun altro pensa: «Noi ebrei siamo la memoria, anche per loro». edono di poter emigrare fuggiasco; da recluso, quasi, in attesa di un lavoro che non sarà facile trovare; con i soldi contati per mangiare, settecento marchi il mese, cinquecentomila lire, che lo Stato tedesco gli garantirà fino a che non avrà un lavoro. Legge quel che è riuscito a portarsi via, e non è molto come si vede dagli scaffali della stanza dove si sforza di ricostruire un ambiente familiare, di recuperare un ordine qualsiasi che «serva anche da filo conduttore attraverso le giornate». Frequenta un corso di tedesco, fa la spesa e aiuta a cucinare nel locale condiviso con le famiglie accanto. Quanto potrà durare? «E' difficile pensarci, ma le organizzazioni ebraiche di Berlino ci daranno aiuto, vogliono inserirci nella vita normale, fra la gente». Sono in molti ad affidarsi alle cadenze della vita al campo: una normalità artificiale ma rassicurante, dopo l'arrivo fatto di attese lunghissime per il permesso di soggiorno e le altre formalità d'ingresso insieme con «centinaia di persone da tutto l'Est che sembrano l'insegna della prosperità della Germania», mentre aspettano di essere accettati. Qui, all'ex caserma di Erkner, tutto ridiventa semplice, tutto è quieto e ordinato, naturale nel suo corso controllato verso un futuro che si immagina radioso nonostante le difficoltà che «inevitabilmente ci saranno». E' una pausa necessaria, ammettono in tanti, anche per non affidarsi subito alle regole dell'Occidente prodigo ma tumultuoso ed esigente: Berlino è a due ore di autobus ma sembra nel prossimo decennio, e arrivare a Erkner seguendo la Sprea fino a Koepenick, e poi alla brughiera che circonda il Grosse Muggelsee e il Damerilzsee, vuol dire tornare indietro a balzi verso quell'altra Germania speculare e intatta. «Restare era impossibile» Vuol dire entrare in un passato anfibio popolato, in apparenza, di venditori di auto usate che dal bordo della strada garantiscono «targhe occidentali» agli acquirenti; di giovanotti in blue jeans sdruciti come a Mosca, fermi davanti alle case di pietra opaca a un piano; di strade dal selciato un po' sconnesso che diradano, man mano che ci si addentra ad Est, i cartelloni con «le pubblicità d'importazione»; le ragazze primaverili della Vespa o le sigarette West sul fondo azzurro dell'Europa dall'Atlantico agli Urali. più di sei mesi, l'eventuale ripresa diventa praticamente impossibile». Proprio questo accade alla gran parte dui maschi in età avanzata. La mancanza dei rapporti da parte dell'uomo ha origini soprattutto psicologiche: il trauma per la morte della moglie (24 per cento), il timore di aggravare le proprie condizioni di salute (8 per cento), la perdita della libido (32 percento), l'incapacità di raggiungere l'erezione (16 per cento). Tabù, complessi, la vergogna di rendersi ridicoli mostrandosi sensibili all'altro sesso, la paura di «non farcela» o di non soddisfare la propria partner. «In realtà - spiegano gli studiosi - un uomo anziano cosciente delle sue possibilità ed età può sfrattare al meglio l'esperienza che I ha acquisito negli anni. Insom- Emanuele Novazio Far l'amore a settantanni: ora non è più un problema, basta una dose di papaverina. Ma in molti casi è utile anche l'assistenza di uno psicoterapeuta ma, può farsi forte della fase che corre tra l'eccitazione e l'orgasmo per rendere più soddisfacente un rapporto che, fino a qualche anno prima, appariva più frettoloso ed egoistico. Non è raro che alcune coppie provino un'intesa sessuale migliore proprio nella terza età». Gli anziani sono tanti, e nei prossimi anni saranno ancora più numerosi: nel 2025 gli uomini e le donne che avranno superato i 60 anni rappresenteranno il 72 per cento della popolazione mondiale, mentre la durata media della vita si innalzerà a quota 85. Per ora, il Paese dove gli ottuagenari fanno strage di cuori è il Giappone. Seguono a ruota Francia, Svizzera, Svezia e Olanda. L'Italia è penultima, superando di stretta misura solo la Germania. Fulvio Milone

Persone citate: Emanuele Novazio, Gorbaciov, Honecker, Joseph Goebbels, Khomeini, Schaeuble