Morton un re megalomane

Cinque Cd celebrano il centenario di un «inventore» del jazz Cinque Cd celebrano il centenario di un «inventore» del jazz Mortoli, un re megalomane Le incisioni dijelly Rollper la Victor 19 Anche il jazz invecchia. Perciò cominciano i centenari (delle nascite, per il momento). Anzi sono già cominciati: nel 1985, si celebrò quello di Joe «King» Oliver, cornettista e direttore d'orchestra, maestro di Louis Armstrong, che nacque a New Orleans l'I 1 maggio 1985. Adesso è la volta di Ferdinand «Jelly Roll» Morton, pianista, cantante, compositore e direttore d'orchestra, nato anch'egli a New Orleans il 20 ottobre 1890 e morto a Los Angeles il 10 luglio 1941. La data di nascita di Jelly Roll esige una spiegazione, perchè fino ad un paio d'anni or sono si riteneva generalmente che il pargolo avesse visto la luce a Gulfport, Louisiana, il 29 settembre 1885. Poi, negli Stati Uniti, qualcuno ha avuto dei dubbi, ha fatto ricerche ed è saltato fuori un prezioso certificato di battesimo, inequivocabile, con la data il nome anagrafico giusti: il futuro musicista si chiamava Ferdinand Joseph Lematt, non La Menthe come pure si credeva. Il ricercatore è Lawrence Gushee, e gli va reso merito. Se negli Satti Uniti si facesse (e si fosse fatta) più attenzione ai documenti, i libri di storia del jazz non riporterebbero certi svarioni. Besti pensare per tutti al caso di Louis Armstrong. Orbene, giusto allo scadere del 1990 la principale casa discografica di Morton, la Victor (adesso Bmg Ariola) ha pubblicato cinque formidabili Cd riuniti sotto il titolo «The Jerry Roll Morton Centennial: his complete Victor Recording» (Bluebird, 2631/2/RB). Lo si può subito definire come uno degli avvenimenti discografici della stagione. - i L'edizione, suddivisa in due box, contiene 73 composizioni Morton in tutto ne scrisse 150 -, 111 brani con varie matrici alternate ma non troppe, libretto esplicativo con tanto di riproduzione del già famoso certificato di battesimo. Intendiamoci: non si deve pensare che la Bmg si sia accesa d'improvviso entusiasmo per Morton e per il successo ottenuto da Gushee. Cinque anni fa, quando tu^ti credevano che «quello» fosse il centenario, non si mosse per nulla (e anche i buoni articoli furono pochi). Adesso ha colto opportunamente il vento favorevole per i Cd. Comunque, ha fatto un capolavoro. Era tempo. Morton può essere definito come il primo autoreesecutore autenticamente geniale, in ordine cronologico, della storia del jazz. Sapeva fin troppo di esserlo: sono rimasti talvolta a scapito dell'improvvisazione. Nella sua preoccupazione, un po' patologica, ma in fin dei conti simpatica e produttiva, di proibire a chiunque di non suonare Jelly Roll, il compositore arrivò a concepire la prima registrazione per orchestra del celebre «Originai Jelly Roll Blues» come la suddivisione di un suo precedente assolo di pianoforte sul medesimo tema. La versione orchestrale del 1924 contiene, praticamente con le stesse note, l'introduzione spagnolesca affidata alla chitarra, il glissando della mano sinistra al trombone, il trillo al clarinetto, e così via. Visse in pieno, malgrado fosse giovanissimo, la vita irripetibile di New Orleans all'inizio del Novecento, suonando nei postriboli di Storyville, la città proibita: è risaputo che degnò della sua preferenza la «sporting house» per bianchi di Josie Ariington, al numero 225 di North Basin Street, considerata la migliore della Louisiana per le sue splendide ragazze. Successivamente, un po' come solista di pianoforte, un po' come direttore di un gruppo e come giocatore di dadi, di carte e di biliardo, girò per gli Stati Uniti facendo al jazz una notevole propaganda. Nel 1923 (a trentotto anni, un'età in cui per molti jazzisti comincia la routine, se non il declino) effettua le prime registrazioni discografiche, poi riunisce i Peppers, immortalati nelle registrazioni Victor. In breve diventa ricco e famoso, gioca in borsa, sfoggia un'automobole lussuosa, ma la Grande Crisi del 1929 lo riduce quasi a zero. Fugge da New York (che da quel momento in poi sarà «la città crudele») ed esce dall'ambiente dei jazz per anni. Nel 1938, in un locale di Washington, lo riscopre l'etnologo Alan Lomax che gli fa registrare una monumentale, meravigliosa autobiografia musicale per la Biblioteca del Congresso, poi pubblicata in dodici long playing dalla Riverside. Per Morton può essere la seconda giovinezza, ma in realtà il divo è stanco e malato. Fa in tempo, prima di morire, a registrare ancora poche cose, sempre però di gran classe. Fa in tempo, prima di morire, a registrare ancora poche cose. Nel box ce ne sono dodici (di cui quattro ripetute) datate settembre 1939, con un salto di nove anni rispetto all'ultima del periodo d'oro che va dal 1926 al 1930. Sono poche, dicevamo, ma possono bastare. celebri i suoi biglietti da visita, nei guali si autodefiniva «inventore del jazz», precisando l'anno in cui era avvenuto, il 1902: quando aveva diciassette anni quindi, secondo le vecchie biografie; in realtà ne aveva dodici. Ai colleghi diceva, scherzando ma non troppo: «Ricordati, amico, che qualunque cosa tu suonerai, suonerai Jelly Roll». E al critico francese Hugues Panassié, che lo incontrò a New York nel 1938, rimproverò aspramente (a ragione) l'assenza pressoché totale, nel libro «Le Jazz Hot», di citazioni che lo riguardassero: «Il mio nome» gli disse «ci dovrebbe essere in ogni pagina». Fu donnaiolo impenitente il soprannome contiene un'allusione molto precisa - al punto che, per gratificare di sorrisi smaglianti le signore sedute in prima fila ai suoi concerti, si fece incastonare fra i denti un brillante purissimo. Ma, sia pure con riluttanza, anche gli altri riconoscevano le doti che aveva: compositore fertile e straordinario, pianista tecnicamente bene impostato (con uno stile derivato più dal ragtime che dal blues, il che si spiega con la sua natura di meticcio con ascendenze francesi, perfino un po' razzista nei confronti dei neri), cantante nostalgico e nello stesso tempo ironico, direttore d'orchestra con pugno di ferro. I pregevoli musicisti del suo complesso migliore degli anni Venti, i Red Hot Peppers, suonarono con affiatamento magistrale, Franco Fayenz APPENA INCISI Gli «Orchesterlieder», un'occasione per rivalutare il compositore tedesco