Joyce maestro dei Beatles di Mirella Serri

Parla Melchiori, il grande studioso dello scrittore irlandese Parla Melchiori, il grande studioso dello scrittore irlandese Joyce maestro dei Beatles L'autore dell'Ulisse morì 50 anni fa r\ ROMA 11 UANDO James Joyce 11 morì, il 13 gennaio 1941 Il a Zurigo, dove si era tra- Y I sferito a causa della V guerra, era già un mito letterario. Lo era per la preziosa e ristretta cerchia di amici e intellettuali, come Hemingway, Aragon, Eluard, Fitzgerald, Beckett, che aveva frequentato negli Anni Venti a Parigi. Lo era per Eliot che nelYUlisse aveva fulmineamente intuito il capolavoro del secolo, capace di restituire tutto l'dmmenso panorama di futilità e anarchia» della nostra storia contemporanea. L'aura sottile, impalpabile e anche un po' misteriosa che circondava l'autore dell'Ulisse era quella del grande maestro, dello scrittore affascinante e temibile, creatore dell'opera più impervia e difficile del Novecento. Oggi, a cinquant'anni esatti dalla morte, come si è sviluppata e come si è trasformata questa importante eredità? Lo abbiamo chiesto a Giorgio Melchiori, curatore della prima traduzione italiana dell'Ulisse, saggista, uno dei massimi studiosi e conoscitori della lingua letteraria di Joyce. Settantanni, con una lunga carriera accademica alle spalle all'Università di Torino, Melchiori è uno dei nostri più importanti anglisti. Esperto di Shakespeare riconosciuto a livello internazionale, gli è stato dato proprio di recente la prestigiosa onorificenza di «CBE» (Commander of British Empire). Lo abbiamo incontrato nella sua villetta di Fregene a pochi passi dal mare, dove lo studioso si rifugia, anche per lunghi periodi, per tenersi lontano dal caos romano e per lavorare tranquillamente. «I debiti della nostra cultura nei confronti di Joyce sono numerosi - afferma Melchiori -. La presenza di Joyce, anche se spesso non ne siamo perfettamente consapevoli, in questi cinquant'anni si è espansa a macchia d'olio ed è dilagata in modo straordinario. Quasi tutti gli scrittori contemporeanei, anche quelli più lontani da lui, non possono prescindere dalla "rivoluzione" joyciana. Esiste un prima e un dopo Joyce nella letteratura moderna. Dopo Ulisse o Finnegan's Wake nessun autore può ignorare 0 trascurare il suo importante insegnamento: chi scrive è un artigiano della parola e usa un preciso strumento di lavoro. Joyce, poi, rovesciando la tradizione secondo cui il linguaggio della letteratura doveva essere aulico, alto, sublime, ha preso da terra - diciamo così la parola poetica, l'ha raccolta dalla strada, dalla comunicazione più quotidiana. Cercando di lavorarla, di manipolarla, di renderla "wonderful vocable", espressione memorabile. Ma non basta, perché Joyce ha rivoluzionato anche la critica contemporanea. Ecco un dato molto concreto. Sette tipi di ambiguità di William Empson, del 1930, l'opera che a sua volta è stata alla base di tanta moderna saggistica, non avrebbe mai visto la luce senza la concezione dell'ambiguità, polivalenza e instabilità del linguaggio letterario che c'è in tutta la produzione di Joyce. Insomma la sua autorità ha condizionato non solo il modo di scrivere, ma anche quello di leggere e interpretare la letteratura». E in quali altri àmbiti possiamo ritrovare la sua influenza? Joyce era molto incuriosito dal cinema. Dalle sue opere sono stati tratti parecchi film, anche se spesso non di eccelsa qualità. Invece Joyce ha suggerito a numerosi registi un modo di raccontare. La tecnica dello Stream of consciousness, del flusso di coscienza, la rappresentazione dell'esperienza, cioè, affidata al fluire della memoria e delle libere associazioni dell'inconscio, è presente in molte grandi opere del cinema moderno. Quasi tutti i registi della Nouvelle Vague hanno attinto da Joyce. L'epico e fluviale racconto della giornata di Leopold Bloom è facilmente apparentabile con le moderne caratteristiche del montaggio cinematografico basate sulla ripetizione delle scene, sul mancato rispetto della crono¬ ura nuri -. e se ttaesti a a i logia, sull'impiego frequente di flash-back. Thomas Mann, Joyce e Proust: sono tre capisaldi letterari del Novecento. Ma lei a chi darebbe lo scettro della più attiva e rilevante presenza nel mondo contemporaneo? Non c'è alcun dubbio che lo darei allo scrittore di Dublino. E questo per l'incidenza che la sua opera ha avuto e ha oltre l'ambito letterario. A Joyce piaceva molto la parola «tecnica» per descrivere le sue soluzioni narrative. E le sue «tecniche» hanno fatto molta scuola. In Italia con quali tappe si è affermata la fortuna di Joyce? Prima degli Anni Sessanta gli scrittori italiani non anglofoni leggevano l'Ulisse nella versione francese. Poi la sua traduzione italiana è comparsa parallelamente alla crescita del fenomeno dell'avanguardia. Joyce è diventato il nume tutelare del Gruppo 63. A quale versione dell'Ulisse ci dobbiamo attenere oggi dopo le numero ..e polemiche sull'ambiziosa impresa dell'edizione critica curata dallo studioso tedesco Hans Walter Gabler? Gabler è stato molto attaccato, soprattutto dallo statunitense Kidd, ma io sono certo che bisogna essergli riconoscenti per il gran lavoro svolto: molte delle sue osservazioni colpiscono nel segno. Anche lui commette alcuni errori, perché intervenire sul testo di Joyce è comunque un impegno arduo. La disputa tra Gabler da una parte, e altri studiosi joyciani, italiani e statunitensi dall'altra, continua ancora adesso. Lei ha insegnato a lungo all'Università. Joyce che effetto fa agli studenti: incute un gran timore? Sì, sono piuttosto spaventati, ma anche affascinati. Quando leggono i testi più impervi di Joyce, come Ulisse o Finnegan's Wake, sono incuriositi e attratti da un modo così nuovo di rappresentare la realtà. Nell'opera di Joyce finiscono col trovarsi a proprio agio. Come se vi ricono- scessero una parte della loro esperienza. Joyce giunge dunque da tante strade, dalla letteratura, dal cinema, come dicevo prima, ma anche dalla musica. E in che modo? Ci sono a mio parere profonde somiglianze tra la rivoluzione compiuta da Shakespeare nei confronti del linguaggio teatrale e quella realizzata da Joyce nell'ambito del romanzo. Avevano entrambi la consapevolezza della variabilità del linguaggio letterario, della sua mutevolezza che si arricchisce dei significati portati dal patrimonio di conoscenze, sensazioni, impressioni, non solo di chi scrive, ma anche di chi legge. Shakespeare sapeva che i suoi testi sarebbero stati recitati e interpretati dagli attori in maniera diversa da quella che lui stesso aveva immaginato, e che, poi, in una catena di «deviazioni» del senso, sarebbero stati recepiti differentemente dagli spettatori. Così Joyce, che in Dedalus punta a far emergere cosa si nasconde dietro il contenuto più ovvio delle parole, in Finnegan's Wake rappresenta invece, attraverso un intricato tessuto di simboli e di miti, la fondamentale ambiguità della parola. Ecco, tutto questo è oggi un patrimonio comune. Joyce si rintraccia anche nei Beatles e in John Lennon. E il loro gusto delle analogie più ardite, il piacere del ritmo, lo scatto, la sorpresa di un significato inatteso, l'inconsueto rapporto tra parole e musica hanno un'origine che può sembrare incomprensibile e che invece a me appare tra le più ovvie. Mirella Serri James Joyce visto da Loredano (copyright per l'Italia «La Stampa»)

Luoghi citati: Dublino, Italia, Parigi, Roma, Zurigo