Al Congresso la prima battaglia di Furio Colombo

Al Congresso la prima battaglia Al Congresso la prima battaglia Falchi contro pacifisti, tutta l'America alla tv O parlato con il senatore Kennedy. Era ancora teso per il suo intervento al Senato. «Come si può avere fretta di entrare in guerra? Che cosa avrà di speciale quel maledetto 15 gennaio?». Ho parlato con il sen. D'Amato, repubblicano e sostenitore del Presidente. «Fare in fretta, fare subito. Ma non li sente i nostri ragazzi nel Golfo?». Il senatore ha ragione. Passano sullo schermo interviste con i «ragazzi» nel deserto, ripresi in «formato passaporto», come dice scherzando il commentatore, perché i comandi militari esigono che non si veda il paesaggio. Uno dice: «Certo, sbrighiamoci, io ho un bambino che mi nasce a marzo. Facciamola finita con questa guerra, mettiamoci una pietra sopra e torniamo a casa». Un altro mostra uno scorpione che stava per entrargli nella scarpa, fa sentire lo scricchiolare dell'insetto fra le dita. « Ecco qua, lo schiacciamo e torniamo». Gli ha risposto il senatore Bob Kerrey, uno dei protagonisti più emozionati del dibattito di Washington. Kerrey, superdecorato del Vietnam, si alza e dice: «Se qualcuno è troppo giovane o troppo anziano per ricordare cos'è la guerra, lo lascino dire a me: è spaventosa». Chiedo al senatore D'Amato se mi conferma un incontro che era stato previsto per la sera del 14 gennaio. «Certo che lo confermo. Che cosa c'è di speciale il 14 gennaio? Saremo in attesa, come tutti. E come tutti speriamo di toglierci questo peso dalle spalle...». «Tutti», però, non è una definizione adatta a descrivere l'America in questi giorni. Ciò che divide il Paese non assomiglia in nulla alle polemiche che dilaniano a stagioni cicliche i Paesi europei. Qui nessuno vuole distruggere Bush, umiliare Baker, o preparare il gioco per battere il partito repubblicano. Qui ciascuno si espone a proprio rischio e pericolo, sporgendosi anche fuori dei propri percorsi sicuri. Quale elettorato a New York - statisticamente una città ostile all'intervento nel Golfo prernierà il militantismo persuaso e fuori dai denti di Alphonse D'Amato? David Boren, senatore dell'Oklahoma, democratico conservatore, voce di una America lontana dalle metropoli, ha fatto uno degli interventi più appassionati. Ha detto: «Parliamoci chiaro. Io non manderei i miei figli. Allora perché dovrei mandare i figli degli altri?». Il suo intervento, carico di emozione com'è - lunghe pause, la voce rauca, una scena da film - dura cinque minuti esatti, come gli interventi di tutti i sena- tori, di tutti i deputati. Non manca nessuno, non rinuncia nessuno. Se uno dei partecipanti ha bisogno di un minuto o due di più, cerca un collega che gli «ceda» un po' del suo tempo. Lo speaker della Camera o il presidente del Senato ne danno conto prima dell'intervento. Per dieci ore, un Paese dove non si nota separazione fra «Paese reale» e «Paese politico», vede sugli schermi televisivi la discussione che continua fino alla notte, che riprende venerdì, che porterà, sabato, a uno dei voti più drammatici a cui sia mai stato chiamato il Parlamento di una democrazia. Votare la guerra, a mente fredda, di fronte ai propri elettori, compiere una scelta che a prima vista appare impossibile fra morte e rinuncia. «Mi è venuto un incubo. E se vinciamo?» annuncia John Chancellor, il commentatore della rete Nbc Tv. Il suo telegiornale conserva la grande abitudine del giornalismo americano. Diciassette minuti di notizie, un minuto di commento. Giovedì, al «Century Club», retrovia delle reti televisive, del New York Times, del Wall Street Journal, Chancellor spiega il suo incubo a Arthur Schlesinger, a William Vanden Heuvel, l'ex ambasciatore all'Onu, a una tavolata di editorialisti che lo circondano. Cerca di indicare le ragioni del suo incubo. «Dovremo occupare l'Iraq, riorganizzare la sua vita, ricostruirlo, come abbiamo fatto con la Germania. E il resto del mondo arabo? Il resto degli islamici? Gli ospedali, i bambini, le vittime?» «Ma abbiamo già vinto!» ha detto a Washington il senatore Dodd. Spiega: «Abbiamo fermato il mondo, occupato il deserto, messo tutti i pezzi del gioco al loro posto. Le regole sono state stabilite da noi, dalla presenza così enorme nel Golfo alle sanzioni, che tutto sommato funzionano. Chi ha detto che buona strategia è necessariamente attaccare, questo o quel giorno? Possiamo restare, aspettare, alternare le iniziative politiche. Possiamo dedicare più tempo a rafforzare il rapporto con gli alleati, a perfezionare il nostro modo di partecipare a una questione che divide gli arabi. Come un buon giocatore di scacchi possiamo prenderci tutto il tempo del mondo. Aspettare costa. Ma costa molto meno che combattere». Gli esperti avanzano teorie. C'è la teoria dell'«estrema manovra». Perez de Cuéllar e Saddam Hussein non si diranno niente di più di Baker e Aziz ma dichiareranno di avere trovato un punto iniziale di accordo. Quanto basta per spostare la data del 15 gen- II Segretario di Stato Baker con il ministro degli Esteri arabo Saud Al Feysal[FOTOAP] naio. Teoria dei due giorni di guerra: ci sarà un attacco, quasi soltanto aereo, quasi soltanto su obiettivi militari, molta agitazione nel mondo, conseguenze relativamente limitate. Qualcuno, dall'Onu o da un credibile Paese arabo proclamerà che «adesso è il momento di parlare». E tutti avranno salvato la faccia. Teoria «di James Dean» (ispirata dal film «Ribelli senza causa» degli Anni 50): quando il confronto diventa così personale, così caratteriale, così «uomo contro uomo», non c'entra più la politica. Nel corso della storia è sempre stata una ragione per il peggio. Il presidente Bush ha scritto una lettera aperta ai giornali delle università, i quotidiani studenteschi che si pubblicano in tutti i campus d'America. Si è reso conto che gli studenti temono il ritorno del servizio di leva, che soprattutto questo spettro ha fatto nascere le prime manifestazioni anti-guerra. Su quattrocento colleges finora solo quattro hanno pubblicato la lettera, nessuno nel gruppo delle università «Ivy League». Ma, spiega benevolmente l'addetto stampa della Casa Bianca Fitzwater, la ragione è questa: è periodo di esami nelle università americane. «I ragazzi hanno altro da pensare che il Golfo». Due ex membri dell'ammini¬ strazione di Reagan, John Whitehead e Richard Perle, hanno pubblicato - su una intera pagina a pagamento del New York Times - il manifesto di un «Comitato per la sicurezza e la pace». E' stato un atto cauto in favore del Presidente e della necessità di intervento armato. Il senso è: meglio una piccola guerra adesso che una grande guerra domani. Ma, dato il titolo della pagina, è dubbio che i lettori si accorgano del vero proposito dei firmatari. Quasi tutti gli altri manifesti, lettere aperte, dichiarazioni e prese di posizione pubbliche nell'America di questi giorni sono per fermare la guerra o la data della guerra. E' la grande differenza che tutti notano rispetto al Vietnam. Tutte le Chiese, tutte le denominazioni protestanti, dalle più «liberal» alle più conservatrici, hanno firmato insieme dichiarazioni contro la guerra. Lo hanno fatto i cattolici di New York (che pure sono guidati dall'ex cappellano militare O'Connor, ora cardinale e vescovo della città). Lo hanno fatto i cristiani fondamentalisti. E ieri otto sindacati, tutti i più grandi, hanno detto che non vogliono una guerra «combattuta dai figli degli operai». Ai tempi del Sud Est asiatico il militantismo prò guerra dei sindacati aveva diviso il partito democrai tico e il Paese. Ma il presidente Bush esce rafforzato o indebolito da questo confronto? C'è una maggioranza per la pace o una maggioranza per la guerra? Senato e Camera offriranno il loro sostegno o lo negheranno? Nervi e tessuto della vita politica americana non assomigliano al ritratto che a volte circola per il mondo. Non c'è un «partito della guerra» che si confronta con un «partito della pace», né una macchina militare che vuole marciare. L'opinione pubblica è troppo forte, e non si lascia fare a brandelli da uno o dall'altro partito. Camera e Senato stanno per fare un gesto «assurdo» dal punto di vista del far politica in Europa: stanno dicendo, ora per ora, (e sono già la maggioranza al Senato), che non si deve fare la guerra. Dal loro scanno mostrano le lettere degli elettori («10 a uno contro la guerra», ha detto un deputato del Kansas rurale e conservatore). Poi daranno un voto di fiducia al Presidente per non isolarlo di fronte al mondo. Ma i discorsi sono stati fatti, le voci sono state udite, il disagio, che non divide ma unisce l'America e ne esprime il vero sentimento popolare in questi giorni è stato mostrato in tutta la sua grandiosità, in tutte le sue facce. Rappresenta soprattutto il dramma di dover fare da avanguardia e da battistrada in un mondo radicalmente cambiato (lealtà, alleanze, area di pericolo, ridefinizioni di amici e nemici, del nuovo pericolo) dopo la fine della guerra fredda. Il presidente Bush avrà la maggioranza ma saprà con esattezza e senza trucchi politici dov'è l'anima del Paese. Avrà sentito la voce del senatore Moynihan che ha detto: «Signor Presidente, siamo stati 45 anni sulle rive del Reno per difendere il mondo libero. E siamo riusciti a non fare la guerra». Il Presidente avrà notato che nessun giornale lo attacca, ma nessuno sostiene la guerra. Avrà saputo che tutti i più importanti giornalisti televisivi americani stanno andando a Baghdad mentre i diplomatici chiudono gli uffici e si allontanano. Il problema strategico delle truppe, il dilemma morale del Congresso, la «mossa del cavallo» dei media sono davanti a Bush. Stranamente non è solo, come era solo Johnson ai tempi del Vietnam. E' in compagnia di una opinione pubblica che gli sta dicendo qual è il vero spirito del Paese: cauto, guardingo, cosciente del cambiamento del mondo, preoccupato. Tutti. Furio Colombo