La storia polacca senza buchi neri

Parla Topolski, in tournée per le conferenze dell'Associazione culturale italiana Parla Topolski, in tournée per le conferenze dell'Associazione culturale italiana La storia polacca senza buchi neri_ «E'finita la censura, ma non l'autocensura» «Adesso gli editori si arricchiscono con i gialli: per noi va peggio» my TORINO A ON c'è più la censura, ma a continuiamo a fare i conti ■ con l'autocensura: dob± 11 biamo liberarci da schemi ideologici e pregiudizi vecchi e nuovi, studiare il passato senza il timore di disturbare il presente, senza attendere autorizzazioni e conferme dall'alto». Così Jerzy Topolski sintetizza i «doveri» dello storico nei Paesi dell'Est, dopo il crollo del comunismo. Nato a Poznan nel 1928, dove insegna metodologia e teoria della storia, figure tra le più autorevoli della scuola polacca, Topolski è in Italia per riaprire il ciclo di incontri dell'Associazione culturale italiana, oggi all'Alfieri di Torino, e poi a Firenze, Milano, Roma e Bari, Un po' stanco per il viaggio, ma rinfrancato da una «formidabile cena» alla Trattoria dei formaggi, veste un dimesso abito blu, ragiona con pacata sicurezza. E' da sempre un accademico cauto, ma non un burocrate della Nomenklatura. Alla voce «Storia» delYEnciclopedia Einaudi Jacques Le Goff lo cita come un «marxista aperto». Del resto, la scuola polacca ha sempre maneggiato il marxismo «con elegante elasticità» (il giudizio è di Ruggiero Romano). Topolski parla con la coscienza di chi «non ha detto falsa testimonianza» e per la sua relazione ha scelto: «Il problema della verità nella Storia». Professore, com'è cambiato il mestiere dello storico nella Polonia di Walesa? Non esiste più una censura di Stato, anche se da noi non era mai stata dura come in Urss o nella Germania Est. Prima, in un regime autoritario (io non l'ho mai definito totalitario), sapevamo tutti che c'erano zone proibite, buchi neri per le nostre ricerche: la storia del partito o i rapporti tra la Polonia e l'Urss. Al limite potevamo scrivere in codice, parlarci tra le righe. Molti si adattavano, e la Storia era usata per legittimare e giustificare il Potere. Questo è un pericolo sempre presente per lo storico, anche in democrazia: oggi ad esempio tocca agli storici catto- liei non accettare «autocensure». Indagare tutto, pubblicare tutto, senza bisogno di imprimatur: ecco la prima condizione per cercare la verità. Avete libero accesso alle fonti, agli archivi? Non ci sono più ostacoli, c'è ancora bisogno di tempo. Si tratta di catalogare gli archivi del Partito e trasferirli nell'Archivio di Stato. A Poznan, si è cominciato a farlo. Poi ci sono le fonti del ministero degli Interni: è già molto importante che si sia evitato di distruggerle, come avveniva in passato per cancellare carte compromettenti. E' più difficile studiare quanto coinvolge i rapporti con i sovietici: e qui molto dipende da cosa succederà a Gorbaciov. Ma si è avviato un processo inarrestabile. Quali sono i temi cruciali di queste nuove ricerche? In ordine cronologico, farei tre esempi. C'è il «ritorno» di Pilsudski, come fondatore e salvatore della prima indipendenza polacca, anche con qualche rischio di mitizzarlo, dimenticando aspetti antidemocratici della sua politica. Si comincia a far luce in baratri oscuri, come il massacro sovietico di migliaia di nostri ufficiali a Katyn, nel '43. Si tentano le prime sintesi di storia politica degli ultimi cinquant'anni, senza più sottostare alla tesi precostituita dello «sviluppo continuo», del «progresso garantito». Dunque, sono tempi propizi per uno storico? Sì, con un'avvertenza. E' peggiorata la nostra condizione materiale. Prima eravamo garantiti e sovvenzionati dallo Stato. Oggi, anche l'editoria affronta il mer- Lo storico polacco Jerzy Topolski, ogg cato. E ognuno di noi per pubblicare deve cercarsi uno sponsor, un finanziamento: gli editori fanno soldi con gli autori «proibiti» o con i gialli, non vogliono, non possono, rischiare con i testi scientifici da poche migliaia di copie. Così anch'io ho libri nel cassetto. Ma è una inevitabile fase di transizione. Lei ha studiato «La nascita del capitalismo in Europa», un saggio tradotto in Italia da Einaudi nel '79. Oggi la Polonia, tutto «l'Occidente sequestrato» come lo defi¬ i a Torino nisce Kundera, torna nell'alveo di quel capitalismo? Ci sono tra noi due opinioni. Per alcuni, il Paese dovrà attraversare tutte le tappe primitive del capitalismo; per altri, è possibile far tesoro dell'esperienza occidentale e non ripeterne gli errori. Non so cosa succederà, non chieda previsioni a uno storico. Nella nuova Polonia c'è ancora posto per i comunisti? Adam Michnik, laureato in storia con lei a Poznan, leader di Solidarnosc, ha scritto: «I comunisti possono solo sgombrare il campo». Gli stalinisti sono morti e sepolti. Ma un nuovo partito socialista e democratico, di sinistra, potrà ritrovare un suo spazio all'opposizione, quando esploderanno le contraddizioni del capitalismo. Già oggi diversi cittadini rimpiangono un po' la tutela dello Stato, dicono: «Prima non eravamo liberi, ma stavamo al sicuro: domani, chi ci difenderà?». Adesso i polacchi sono «occupati» solo da se stessi, non si preoccupano più della situazione internazionale. Nel suo saggio «La storiografia contemporanea», tradotto dagli Editori Riuniti nell'81, lei rivendicava il primato teorico del marxismo. Ha cambiato idea? Non è vero che il marxismo non ci serva più. Io sono sempre stato un «revisionista», criticato dai dogmatici. Non ho abbracciato il marxismo come teoria chiusa, anzi ho cercato di portare al marxismo il contributo della mia teoria. Ho imparato molto anche dal vostro Gramsci. Già Braudel mi diceva: «Il marxismo non ti tiene per le redini, non ti sta alle spalle, ma davanti». Viene in mente un passo del suo connazionale Brandys, nel racconto «La difesa del Grenada»: «Oggi il tempo non copre più di ombre le vicende umane, al contrario le tira fuori dal buio... La verità è ora davanti a noi». La storia non è una scienza positivistica. Lo storico non avrà mai la certezza scientifica della verità. Ma può e deve liberarsi dagli ostacoli esterni e interni sulla via della verità. Non cercare le verità che vogliono sentirsi raccontare lo Stato o il Popolo (quanta gente pretende un passato «accettabile», a sua immagine!). E nemmeno cercare conferme a proprie visioni prefabbricate, immobili. Deve scegliere i fatti, dare loro un ordine, una gerarchia e poi collegarli, farli interagire. Perciò ha bisogno di una teoria coerente, non di un catechismo pietrificato. Luciano Gerita