Arrivano Sartre e Camus per il regista Pagliaro un'overdose di tragico di Masolino D'amico

Roma, novità all'Argentina Roma, novità all'Argentina Arrivano Sartre e Camus per il regista Pagliaro un'overdose di tragico ROMA. Dunque ci demmo la zappa sui piedi, noi critici, quando (io per la verità meno di altri) fummo severi a Spoleto con «La Cagnotte» di Labiche: perché il giovane e coraggioso produttore, l'Audac (Teatro Stabile dell'Umbria), immagino anche in seguito ai nostri rilievi, decise di ritirare lo spettacolo e di affidarne al regista Walter Pagliaro per la tournée invernale un altro di tono decisamente opposto, due testi sacri dell'esistenzialismo come «Il malinteso» di Albert Camus e «Porta chiusa» (nuovo titolo per «Huis Clos») di JeanPaul Sartre. «Ci dite che Pagliaro non è portato al comico?», dev'essere stato il ragionamento. «Bene, diamogli qualcosa di tragico, anzi, di tragicissimo. E non venite a lamentarvi anche questa volta». Invece noi ci lamentiamo, eccome. Mettere Labiche in mano a un uomo che ci cercava Beckett e rallentava i .ritmi per sondare i sensi riposti delle battute era stato forse avventato; ma dargli Camus e Sartre è stato come accogliere un reduce da San Patrignano con una bella scodella piena di coca. Uno solo dei due testi sarebbe bastato a Pagliaro per deprimere qualsiasi platea; in mano a lui la coppia raggiunge un effetto-sfollagente alla nuca. Vi ricordate gli argomenti? Quello di Camus, antichissimo, già trattato fra gli altri da Zacharias Werner e George Lillo (1736), è l'episodio della madre e della figlia che per sopravvivere assassinano i clienti del loro sordido alberguccio, e così sopprimono anche il figlio partito tanti anni prima e tornato ricco e in incognito: così Camus esemplificava le scelte sbagliate con cui gli umani insetti si autodistruggono. Nel lavoro di Sartre siamo addirittura all'inferno, dove tre neodannati, un uomo e due donne, si preparano a raccontarsi incessantemente le proprie trascorse miserie senza poterle modificare e senza ottenere solidarietà, anzi, scoprendo che proprio nel contatto perpetuo con interlocutori indifferenti o addirittura ostili consiste la loro pena: «L'inferno è gli altri». Per porgere oggi questi reperti del torvo clima bellico (i due testi sono dei primi anni 1940) un regista potrebbe tentare di smussarne certe asperità, anche se credo la mancanza di umorismo e la monotonia del Camus (lo mostrò anche Sandro Sequi pochi anni fa) restino un ostacolo insormontabile. Pagliaro ha comunque scelto la strada del rigore assoluto: scena elegantissima ma astratta, non dunque il salotto Secondo Impero beffardamente previsto da Sartre, ma una gradinata in prospettiva tipo Scala Santa, interrotta da porte e sovrastata da un'incombente, immensa architettura a mattoni fra Piranesi e i Vittoriani (scenografo Carlo Tommasi); luci (di Sergio Rossi) spioventi dall'alto, tali da celare spesso i volti degli attori, e comunque di ostacolare la piena visibilità. I gradini (senza le porte in prospettiva) sono usati anche nel Camus, ostacolando quindi la comprensione quando si sente parlare di camere d'albergo; strano albergo, comunque, con un vecchio domestico che chissà perché si aggira vestito da frate. Ma appunto, lo scopo non è quello di aiutare gli spettatori, e nemmeno del resto, quello di spiazzarli; questo è uno spettacolo che il regista ha concepito a propria glorificazione, come certi architetti costruiscono case inabitabili ma meravigliose nelle fotografie sulle riviste specializzate. Dal canto suo l'Audac aveva dato al suo beniamino tutto il meglio, commissionando nuove ed eccellenti traduzioni dei testi a letterati come Enrico Grappali ed Enzo Siciliano, e scritturando ottimi professionisti come Micaela Esdra, efficace tanto come la sorella del «Malinteso» quanto come l'ex donna di vita del Sartre; come Valentina Fortunato (la Madre e poi l'omosessuale Ines), dalla voce intensa e autorevole; come Luigi Diberti, sadico diavoletto nel Sartre e malinconico figliol prodigo nel Camus. Meglio di tutti, anzi, a ripensarci unica nota veramente positiva della serata, Warner Bentivegna, composto e vibrante Garcin. Ma tre ore e mezzo di pessimismo declamato per di più con lancinante lentezza, e in penombra, senza nemmeno una storia a cui aggrapparsi, hanno comprensibilmente sfinito gli abbonati dell'Argentina, buona parte dei quali fiutando il pericolo era comunque rimasta a casa. I superstiti hanno applaudito la dedizione degli interpreti, e anche la coerenza del regista. Al quale quando a sua volta finirà in purgatorio (ormai abbiamo superato Sartre e sappiamo che l'inferno, perlomeno nell'aldilà, non esiste) saranno proiettati tutti i film dei fratelli Marx. Masolino d'Amico

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