Ida che noia il troppo di Si. Ro.

Incontro con la Di Benedetto, alla ricerca di un ruolo «normale» Incontro con la Di Benedetto, alla ricerca di un ruolo «normale» Ida: che noia il troppo Ha appena terminato una Protagonista con Meme Pe ROMA. Doppia Ida Di Benedetto: al cinema è protagonista di «Ferdinando uomo d'amore», una commedia di Annibale Ruccello portata sullo schermo da Meme Perl ini con Marco Leonardi, Alessandra1 Acciai e lo stesso Perlini, con la distribuzione della Erre di Rizzoli; in teatro, per la regia di Piero Maccarinelli ha recitato in «L'ospite desiderato», un testo di Rosso di San Secondo mai più rappresentato dal '21. Operazioni gemelle queste di Ida Di Benedetto, non solo per la comune origine teatrale, ma anche per la proposta di caratteri femminili estremi e per la ricerca stilistica sul linguaggio, un italiano dannunziano a teatro, un napoletano borbonico al cinema. Cos'è, scelta o caso? Ida Di Benedetto sospira. «Difficile distinguere. Certo è che non lavoro, non riesco assolutamente a lavorare, se non credo nel progotto. Però, dopo quindici anni di mestiere, ritengo non obbligatorio per me portare in scena solo personaggi drammatici, fatali, appassionati. Qualche volta vorrei che mi offrissero un ruolo di donna normale, come credo di essere nella vita. Ma non accade». Perché? «Pare che abbia sempre qualcosa di troppo. Troppo alta. Troppo personale. Una bocca troppo grande. Uno sguardo troppo intenso. Solo i registi tedeschi mi chiamano e mi continuano a chiamare per dure la mia immagine al loro cinema in ruoli tra loro diversissimi: madre di famiglia, gangster mafiosa, perfino cittadina della Repubblica federale tedesca, a dispetto della mia faccia chiaramente mediterranea». Come mai i tedeschi sì e gli italiani no? «Perché gli italiani ragionano per schemi: la bbona, l'intellettuale, la tragica. Temo che perfino Meryl doppia operazione, teatrale rlini di «Ferdinando uomo d Ida Di Benedetto: «I registi tedeschi m Strcep, se fosse nata in Italia invece che in America, avrebbe fatto fatica a lavorare. Ma ò un mondo culturale asfittico, questo italiano, dove l'aria non gira. Soprattutto nel cinema che pure avrebbe l'ambizione d'essere industria: troppi padrinaggi politici, troppi funzionari incompetenti, troppi imbrogli di famiglia. Allora succede che uno si lega d'amicizia con un altro, i rapporti di lavoro diventano incontri personali, si fa una cosa solo quando uno che ti stima pensa a te». Ripassa la sua carriera. Tre lavori con Piscicelli: «Immacolata e Concetta», «Blues metropolitano», «Regina». «E l'ultimo, che è stato un fiasco, a me è costato tre anni di ostracismo e a Piscicelli l'impossibilità di ricominciare» Tre con Lizzani: «L'isola», «Fontamara», «Mamma Ebe». «E questo l'ho fatto solo per amicizia verso il regista». Tre con Perlini: una Gio¬ e cinematografica 'amore», da Ruccello i usano meglio» vanna D'Arco e un Pirandello in teatro, e adesso il film: «Questo bellissimo Ferdinando appena girato». Quattro addirittura con Werner Schroeder, due dei quali «Nel regno di Napoli» e «Palermo o Wolfsburg» considerati di culto: «Ma ho in progetto con lui anche una messa in scena da Mishima che faremo quest'inverno in Italia perché io possa recitare nella mia lingua». Però ritrovarsi con i propri registi può anche essere bello? Sospira ancora: «E' un privilegio, certo. Perché ci si fida, ci si lascia andare, ci si vuol bene. E poi si lavora insieme intorno a una cosa che comunque non è mai né sciatta né casuale. E' una tappa di un percorso che si fa insieme con intenti comuni. In qualche caso è addirittura una operazione culturale. Però alla mia età mi piacerebbe che anche altri registi, mai visti, mai incontrati pensassero a me». [si. ro.]

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