L'idrovolante fantasma di Pjatakov

« « Scrivemmo che era sceso in un lago, per incontrare Trotskij: ma era impossibile» L'idrovolante fantasma di Pjatakov^ Storia d'un documento che doveva parere assurdo «Nel'44 a Oslo c'erano due sicari con l'incarico di eliminarmi» Anche Krusciov cercava la verità ma forse non fece in tempo do a tappe forzate i suoi uomini di Mosca nei gangli vitali della Nkvd locale. Proprio in quei mesi il futuro assassino di Kirov si allenava con la pistola e veniva fermato per ben due volte dagli agenti (una delle quali mentre cercava di entrare, armato, nello Smolnij) e poi misteriosamente rilasciato. Forse Danielsen ci ripete la versione che, per decenni, ha imparato a memoria: non c'ero, non potevo sapere. Sapeva soltanto le cose che ci ha raccontato? Evidentemente no. Lo dirà lui stesso nel secondo incontro: «La storia delle conseguenze del mio periodo leningradese non finisce qui. Nel 1944 Olav Meisdalshagen, ministro dell'Agricoltura nel primo governo Gerhardsen, mi chiamò per informarmi che due uomini erano giunti da Londra con l'incarico di liquidare Arturo. Contatti ad alto livello «Arturo ero io. Era il mio nome di battaglia durante la resistenza ai nazisti. Il ministro mi rivelò il nome, sicuramente falso, di uno dei due sicari, un certo Leif». Danielsen aveva dunque contatti ad alto livello, fuori e dentro l'ambasciata sovietica. Anche dopo l'assassinio di Kirov. Vuole accreditare la tesi di aver «sempre lavorato mntro Stalin», ma rivela lui stesso di aver collaborato «con la Gpu» appena tornato a Oslo («facevo la spia, era facile allora essere implicati in questi lavori»). Ma perché Arturo mette in relazione il tentativo di assassinarlo con i suoi trascorsi leningradesi? Perché - come dirà tra poco - fu «ricattato dalla Nkvd»? Le risposte a queste domande non verranno. Ma emerge la cosa forse più importante che Danielsen voleva rivelare e che getta nuova luce, a ritroso, anche sull'assas- LETTERE AL GIORN Aleksandra Kollontaj. La dirigente bolscevica aiutò Danielsen e fu grande amica sinio di Kirov: fu a Oslo che vennero fabbricate le «prove» contro Gregorij Piatakov e contro Lev Trotskij. E c'è una circostanza sconvolgente: i capi d'accusa del processo contro Pjatakov, Radek e altri vennero preparati con largo anticipo rispetto al processo del 1937 che si concluse con la fucilazione di gran parte degli imputati: quando ancora Pjatakov era in carica come vicecommissario del popolo all'industria pesante, e membro del Comitato centrale del partito. Stalin aveva dunque pianificato tutto. E il racconto di Danielsen - seppure costellato di reticenze - è sensazionale. Trotskij giunge a Oslo dalla Turchia nel maggio 1935. Dopo alcuni giorni arriva all'ambasciata sovietica un nuovo «viceconsole», Mikhail Datiev. Danielsen dice di avere scoperto per caso che il vero nome era Serghei Taraverdiev. Un tartaro, agente della Nkvd, che seguiva Trotskij in tutti i suoi spostamenti e parlava perfettamente il turco. Datiev ingaggia subito Danielsen («non collaborare avrebbe significato la mia condanna a morte») e suo padre Vassili Nikolaevic. Danielsen figlio usa i suoi contatti per procurarsi «quattro fascicoli top-secret contenenti le copie della corrispondenza di Trotskij». «Me li diede un funzionario del ministero degli Esteri norvegese, Sofus Jakobsen - precisa Danielsen e ricordo cha la moglie di Taraverdiev li fotografò tutti in una sola notte». Ma verrà poi l'ordine di implicare Pjatakov - ex membro dell'«opposizione di sinistra», ex trotskista - in «contatti con Trotskij a fini sovversivi». L'occasione è fornita da un viaggio a Berlino di Pjatakov nel dicembre 1935. Secondo la confessione fornita in seguito da Pjatakov al pro¬ ALE di sua madre cesso, le autorità tedesche gli avrebbero fornito un aereo per trasferirlo segretamente a Oslo l'il dicembre. Appunto per consentirgli di parlare con Trotskij. Tralasciamo i particolari e seguiamo il racconto di Danielsen. Datiev-Taraverdiev incarica il padre di Danielsen di procurarsi un falso documento della polizia norvegese che confermi l'avvenuto arrivo a Oslo di Pjatakov. «L'operazione fu possibile perché mio padre spiega Danielsen - era in contatto con un funzionario del ministero degli Interni norvegese, di nome Murre, che viveva nello stesso palazzo. Bevevano spesso insieme. Fu Murre a procurare il documento, con tanto di timbro. Datiev aveva pagato bene. Notai, in seguito, che mio padre aveva un sacco di soldi». Ma Danielsen figlio doveva essere bene al corrente se è ve¬ ro ciò che aggiunge poco dopo: «Capimmo - io, mio padre e Murre - a cosa sarebbe servito il documento. Per questo preparammo una prova che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto subito apparire inattendibile. Nel documento venne scritto che la polizia norvegese aveva saputo dell'atterraggio di un idrovolante in un piccolo lago nei pressi di Oslo. Ma-in quell'anno il tempo era stato particolarmente rigido, il lago era ghiacciato e coperto da neve abbondante. Inoltre da metà settembre tutte le comunicazioni aeree erano state sospese. Pensavamo che quella prova sarebbe stata subito scartata, ma ci ingannammo sulla logica della polizia staliniana. Quel documento figurò a sostegno del capo d'accusa contro Pjatakov». In seguito, continua Danielsen, «ci rendemmo conto del pericolo che correvamo. Il documento che avevamo fornito a Datiev era troppo grossolano. E con gli uomini di Stalin non si scherza». In realtà l'accusatore al processo, Vyshinskij, aveva già capito che l'atterraggio non poteva essere avvenuto nel modo ideato a Oslo dall'Nkvd. Infatti nella confessione preparata per l'imputato risulterà che egli partì dall'aeroporto Tempelhof di Berlino e atterrò nell'aeroporto di Kjeller. Sfortunatamente per Vyshinskij, tuttavia, lo stesso direttore dell'aeroporto di Kjeller, Gullichsen, dichiarò al giornale Arbeiderbladet - negli stessi giorni del processo di Mosca - che «nessun aereo straniero era atterrato» in quell'aeroporto «nel mese di dicembre 1935». Così, nel prosieguo del processo, nessun riferimento alle circostanze concrete del presunto arrivo a Oslo di Pjatakov venne più riesumato e la condanna alla fucilazione venne impartita sulla base della sola confessione estorta all'imputato. Ma questa è altra storia. Eppure Danielsen non ci ha raccontato che una piccola parte della sua verità. Nella conversazione telefonica con Viktor Gaiduk aveva detto di «aver parlato con Krusciov», quando questi arrivò in Norvegia nel giugno del 1964. Krusciov poteva essere vitalmente interessato, quattro mesi prima della sua destituzione, a venire a capo dei terribili segreti che presero avvio con l'uccisione di Kirov. Ma non c'è traccia, nelle sue memorie, di una tale conversazione. Ora Danielsen si è dimenticato di questa circostanza e non vuole farvi cenno. «E' strano - dirà prima di congedarsi - ma questo Leif lo aspetto ancora. E' il nome della morte che mi ha sempre aleggiato attorno. Se vengono a cercarmi non troveranno niente, perché i documenti sono al sicuro, affidati a un amico che si è impegnato, davanti a un no-taio, di rivelarli solo post mortem. Se mi uccidono stanotte, domani appariranno. Così mi sono salvato la vita». Pjatakov è già stato riabilitato ufficialmente, come tutte le vittime dei processi degli anni '36-'37-'38. Tutte le accuse erano false, le confessioni estorte. Ma il nostro Danielsen ha vissuto il resto della sua vita nel terrore. Come tanti. Sì, Arturo sapeva davvero molte cose di quell'ambasciata. Forse fu un pesce piccolo, finito in una rete troppo grande per lui. Difficile districarsi nel labirinto di una mente che ha metabolizzato la paura e che dissemina, tra i ricordi, le trincee costruite lungo gli anni per salvarsi e quelle che gli servono per restituire un senso onorevole alla propria esistenza che sta per finire. Il nome della morte Giuliette» Chiesa