«Così inventammo la congiura trotskista»

«Così inventammo la congiura trotskista» «Così inventammo la congiura trotskista» OSLO DAL NOSTRO INVIATO L'incontro avviene in una camera d'albergo. Dove abita non lo rivela. Il suo numero di telefono non è sull'elenco. Settantanove anni, abito nero elegante, camicia immacolata con ampi polsini. Mi guarda con sospetto e fa un largo cenno, un po' teatrale, verso il soffitto, come a cercare l'inutile assicurazione che non ci sono microfoni. Poi, in lingua russa, esclama: «Che ascoltino pure, questa è la verità!». Siamo in tre, oltre a lui. C'è il professor Torgrim Titlestad, storico dell'Università di Stavanger, e Viktor Gaiduk, anche lui storico, dell'Accademia delle Scienze dell'Urss. Il secondo è stato il catalizzatore di questa strana reazione chimica che ha convinto Nikolaj Danielsen, alias Danilov, alias Arturo, a rivelarsi al pubblico dopo 55 anni di silenzio e di fughe. Tutto cominciò l'agosto scorso, quando Gaiduk fu intervistato dalla tv norvegese. Danielsen ne fu toccato e trovò il contatto con lui tramite Titlestad. «Sono stato l'autista di Kirov - disse emozionato - è la prima volta che parlo in russo dal 1964, quando incontrai Krusciov». Inutile dire che il professor Gaiduk fece un salto sulla sedia. All'altro capo del filo c'era un pezzo di storia ancora pieno di buchi neri. Ma l'incontro non fu possibile allora. Così, informato da Gaiduk, mi ritrovo a Oslo alla ricerca di qualche tassello del mosaico che Danielsen vuole rivelare. La sua memoria appare subito formidabile. Arturo è in grado di ricordare i dettagli più minuti, con quella strana presbiopia dei vecchi che permette di vedere le cose più lontane come fossero presenti, ora e qui. Ma la sua memoria, sorprendentemente, mostra strani vuoti proprio nei punti più delicati del racconto. Un fiume di parole con dati minuziosi, ma si vede che non gradisce la mia presenza. Ed è chiaro, fin dalle prime battute, che Danielsen non dirà tutto quello che sa. «Arrivai a Leningrado nel 1929, quando avevo 19 anni. Abitavo sulla prospettiva Marx, in casa del famoso attore Volskij. Mi raccomandò Aleksandra Kollontaj, allora ambasciatrice in Norvegia. Con ben tre lettere. Ma la prima volta andò male e non fui assunto. Tornai a Oslo con il battello, pagando 30 corone. assumono e mi danno in consegna una bella Ford costruita a Mosca su licenza americana. Ero il più giovane là dentro. Il capo del garage si chiamava Kondratev, al servizio riparazioni c'era Koziuk. Lì conobbi l'autista personale di Kirov e di Kodatskij, un certo Judin». Poi Danielsen divaga in particolari insignificanti. Perché decise di emigrare in Russia? «Lavoravo come telefonista nella rappresentanza commerciale sovietica. In quegli anni i rapporti economici tra Norvegia e Unione Sovietica peggiorarono. Fui licenziato e pensai di fare come molti, che andavano a Murmansk a tagliare i boschi. Fu la Kollontaj a indirizzarmi a Leningrado». A Oslo - dove era stata rappresentante commerciale dal 1923 al 1926 - la dirigente bolscevica era tornata nel 1927. L'amicizia con la madre di Danielsen risale però ai tempi del liceo, che Elena Simeon e Aleksandra Kollontaj avevano frequentato insieme a Pietroburgo. Amicizia molto intima, visto che, in famiglia, i Danielsen-Danilov la chiamavano «zia Shura», e che la Kollontaj affidò all'amica «Liolia» addirittura la sua corrispondenza personale con Nadiezhda Krupskaja, la moglie di Lenin. Arrivare a Kirov è possibile solo con larghi cerchi concentrici. Danielsen è un'anguilla, come se stesse vacillando la sua determinazione a rivelarci qualcosa. «Ho portato in macchina Kirov, quando Judin, il suo autista personale, non c'era, o quando ero di turno. Ricordo che amava sedersi davanti e chiacchierare con me. Era una persona piacevole. Mi chiese una volta se ero del Komsomol (la gioventù comunista, ndr) e volle parlare dePa situazione in Norvegia. Voleva anche sapere cosa si diceva di lui. Comunque non credo che sedersi accanto all'autista fosse solo un gesto di cameratismo tra compagni. Era anche una misura di sicurezza, perché così non si poteva mai sapere dove si sarebbe seduto Kirov». Ci stiamo avvicinando a una delle questioni più delicate e controverse dell'indagine: quali erano le misure di sicurezza attorno a Kirov. Nel garage dello Smolnij E se Kirov temeva attentati. Qui le risposte di Danielsen nel corso di tre colloqui - sono ricche di informazioni, ma ambigue. «Non aveva paura di essere ammazzato - aveva detto a un certo punto -, lo Smolnij e casa sua erano superprotetti». Ma la descrizione del funzionamento del garage della via Shpalernaja dice che il servizio di sicurezza di Kirov era ferreo. «Quando arrivava la chiamata per l'auto di Kirov, e Judin partiva, il capo del garage faceva sempre due telefonate per avvertire qualcuno. Lo faceva solo per lui. Gli agenti della Gpu gli stavano sempre addosso. Era impossibile che qualcuno gli si avvicinasse». Eppure - lo interrompo - Kirov fu ucciso dentro lo Smolnij, a una svolta del corridoio, mentre la sua guardia del corpo, Borisov, era rimasta distanziata di una trentina di passi. Daniel- Raccomandato dalla Kollontaj «Finalmente nel settembre di quell'anno - era il secondo del piano quinquennale - fui assunto come operaio nella fabbrica di telefoni Eriksson, poi rinominata Alba Rossa. Questa volta la Kollontaj mi aveva raccomandato al presidente del comitato esecutivo regionale, Ivan Kodatskij (fucilato nel 1937, ndr). Ma il capo del reparto scopre che sapevo guidare la macchina e mi dice: fesso, non sai che mancano autisti? Così mi propongono di andare al garage della via Shpalernaja, quello dei capi del partito. Ci vado con la mia patente norvegese e loro mi fanno fare l'esame di guida con un camion. Mi