«Scoprii per primo quegli omissis» di Paolo Guzzanti

Il 29 gennaio '68 il deputato lesse alle Camere le parti censurate, invano zittito da Moro Il 29 gennaio '68 il deputato lesse alle Camere le parti censurate, invano zittito da Moro «Scoprii per primo quegli omissis» I Anderlini: poche novità dalle carte sul golpe ROMA. Era il tardo pomeriggio di un plumbeo 29 gennaio del 1968, prima della primavera della Primavera di Praga, per intendersi. Prima del «joli Mai» degli studenti, prima di piazza Fontana, in un'epoca che già sembra remota. Seduto al banco del governo nell'aula di Montecitorio, il presidente del Consiglio Aldo Moro appariva accigliato e sprezzante. Erano le cinque del pomeriggio e di lì a poco il deputato Luigi Anderlini, da poco uscito dal partito socialista unificato di De Martino e Tanassi, si sarebbe esibito in un clamoroso coup de théàtre. Moro, dal suo punto di vista, aveva tutte le ragioni per essere inquieto: tutte le parole, le frasi, i nomi che con tanta cura aveva fatto personalmente omettere («omissis») dal rapporto segreto stilato dal vicecomandante dei carabinieri gen. Manes, sulle trame golpiste di De Lorenzo, sarebbero stati gridati ai quattro venti e avrebbero riempito di clamore l'aula mentre gli stenografi di Montecitorio li avrebbero inesorabilmente trascritti. E così fu, come risulta dalla lettura da pagina 42.824 fino a pagina 42.834 degli atti parlamentari della Repubblica italiana, Camera dei Deputati, IV Legislatura, verbale della seduta del 29 gennaio 1968. Quando questa clamorosa violazione del segreto fu consumata, era in corso il processo contro Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi, imputati di aver rivelato sull'Espresso la storia della trama del Piano Solo, strenuamente e impudicamente negata. La loro difesa in Tribunale fu bloccata da quegli «omissis» e in primo grado i due giornalisti fuono condannati, proprio per non aver potuto esibire come prova nella sua versione integra il rapporto che il gen. Manes aveva steso per ordine del suo superiore, generale Ciglieri. Anderlini entrò dunque in aula, attraversò l'emiciclo e risalì verso la terza raggiera di sinistra. Teneva stretta la borsa che conteneva la cartellina verde in cui da poche ore aveva radunato le preziose carte segrete: la verità del generale Manes, che il presidente del Consiglio voleva mantenere segreta. Sono passati, da quel pomeriggio, quasi 23 anni. Oggi Anderlini mi riceve nel suo appartamento di viale delle Milizie, nel quartiere Prati: una casa sobria piena di quadri e libri. Ci sediamo in salotto e comincia l'intervista. Come ebbe gli «omissis» che poi andò a leggere davanti ad Aldo Moro? Quegli «omissis», sia pure per un solo giorno, avevano fatto parte di un atto giudiziario pubblico. Teoricamente chiunque avrebbe potuto averli. Ma non fu così: l'on. Moro fece ritirare la relazione del gen. Manes e la rese inservibile con gli «omissis». Io ebbi il testo integrale, sia pure indirettamente, proprio dal gen. Manes. Chi fece da tramite? Il valoroso Pasquale Schiano, che era stato sottosegretario alla Difesa nel primo dopoguerra, e che aveva mantenuto stretti contatti con i militari più democratici e più fedeli alla Repubblica. Perché tanto segreto e tanto accanimento per quelle carte? Perché quel generale aveva fatto un lavoro in più, rispetto a quello che gli era stato chiesto. Il suo superiore gli aveva detto: Manes, apra un'inchiesta, passi al setaccio l'arma dei carabinieri, ma mi porti qui coloro che hanno passato le informazioni all'Espresso. Manes rispose signorsì, ma poi la passione per la verità gli prese la mano. Invece di dare la caccia a chi aveva fatto uscire le notizie, si mise a raccogliere tutto ciò che i suoi subalterni avevano saputo del Piano Solo. Il risultato fu una bomba: la sua relazione dimostrava chiaramente che Scalfari e Jannuzzi avevano avuto ragione. Ma Aldo Moro ci mise lo zampino: fece sequestrare il rapporto e lo rispedì tagliuzzato e inutilizzabile. Aldo Moro che cosa faceva? Era al tavolo del governo insieme al ministro della Difesa Tremelloni del partito socialista unificato. Anche questo fatto va ricordato, per tornare a respira¬ re quel clima. La sinistra socialista di Basso e Vecchietti si era scissa formando il psiup e anch'io, che ero stato nel governo ed ero lombardiano, avevo lasciato il partito. Che c'entra con il tentato colpo di Stato? C'entra. Fu proprio il tinnire delle sciabole durante l'estate del '64 che costrinse la sinistra socialista di Riccardo Lombardi ad andarsene dal governo. Alcuni accettarono di farsi chiudere in un angolo, altri se ne andarono. E lei da che parte stava? 10 mi ritenevo e mi ritengo un socialista. Ma allora ce ne andammo in parecchi, e formammo quella Sinistra Indipendente che subito prese a veleggiare verso il pei. Questa farraginosa geografia parlamentare può far capire quali e quante tensioni serpeggiassero in aula: i comunisti che cercavano a tutti i costi di aggredire i socialisti di Nenni, noi in mezzo che dovevamo prendere le distanze dall'abbraccio comunista. Torniamo a quel pomeriggio. Chi fu a metterle nella borsa gli «omissis»? Fu il giornalista Jannuzzi, il quale a sua volta li aveva avuti da Pasquale Schiano. E Schiano come li ebbe? Direttamente dal povero generale Manes. Del resto, fu proprio 11 povero Schiano la prima fonte delle notizie sulla vicenda. Siamo dunque alla storica seduta. Ricorda i dettagli? Perfettamente. 11 presidente dei- tica di ciò che stava accadendo, cominciarono ad intuire la portata delle mie rivelazioni e presero a rumoreggiare: «Vuole impedirgli di andare avanti... tenta di intimidire il Parlamento...». Dovette interrompere la lettura degli «omissis»? No, tenevo il microfono senza mollarlo. E mantenni la calma. Risposi a Moro che sì, certo, ero ben consapevole della responsabilità che mi stavo prendendo. Ma che responsabilità ben maggiore si era assunto chi aveva epurato quei brani della relazione Manes che non avevano alcun valore di segreto militare e invece rappresentavano un intollerabile segreto civile. In che senso? Nel senso che tutti quegli «omissis», salvo dettagli, che cosa riguardavano? Si trattava di singole parole, pezzi di frasi da cui si poveva chiaramente capire che il generale De Lorenzo aveva creato una illecita e temibile organizzazione militare capace di rendere attuabile e credibile una sollevazione armata contro lo Stato repubblicano. Da solo, così come «Solo» si chiamava il suo piano. Scoppiò la bagarre: Aldo Moro si sbracciava e urlava: basta, lei non può dire que- Luigi Anderlini (foto grande) e alcuni protagonisti di quella storica seduta (foto piccole). Nell'ordine: Aldo Moro, Malagodi, Bucciarelli Ducei, Nenni, Giorgio Amendola. la Camera, Bucciarelli Ducei, dette la parola al missino De Marzio, che sparò a palle di fuoco proprio contro i socialisti, per la vicenda Sifar. La storia degli assegni? Sì. De Lorenzo era molto furbo. Erano usciti fuori degli assegni del Sifar che erano stati versati al psi, con i nomi dello stesso Pietro Nenni, di Achille Corona e del ministro Pieraccini. Fu un intervento duro, che rese subito rovente il clima. Poi parlò il lucidissimo Giovanni Malagodi, me subito dopo il comunista Lami, da sinistra, riprese l'attacco feroce contro Pietro Nenni. Gli rimproverava di essere stato zitto nel luglio del '64. E i socialisti? Incupiti e aggressivi. Sulla difensiva. Si parlava di Sifar, ma si processava il centro-sinistra. Come al solito, sulla scena primeggiava lo scontro fra partiti, più che la ricerca della verità. Lei era fuori del psi: condivideva le critiche del pei? Posso soltanto dire che la grande paura agitata dal generale De Lorenzo aveva ottenuto un risultato certo: i socialisti erano decotti e, paradossalmente, il governo più rivoluzionario appariva ormai il primissimo tentativo di centro-sinistra, quello di Fanfani fra il '62 e il '63, con i socialisti astenuti. Tirava dunque una brezza tesa dal livore. Torni allora con la memoria su quella tribuna. Arrivai al microfono impacciato. La presi alla larga. Non ne posso più di tornare a parlare di questa storia del Sifar, dissi. Andai avanti per un po' e il primo ad attaccarmi con una battuta di scherno fu Francesco De Martino, segretario dei socialisti unificati insieme a Mario Ta¬ nassi. La attaccò sugli omissis»? Non c'ero ancora a n . >.■ to. Stavo dicendo che persi , in Germania, con quel passato terribile, era appena stata varata una legge che permetteva ai militari di non obbedire ad ordini che esulassero dai loro compiti specifici. De Martino, sentendo dire che gli ufficiali tedeschi erano più affidabili di quelli italiani, saltò su e gridò che i tedeschi sono revanscisti. Io allora alzai la voce e con tono di sfida gli lessi l'articolo della legge tedesca. E Moro? Chiacchierava: faceva il distratto. Lo scambio di battute fra me e De Martino aveva però mobilitato l'attenzione dei deputati. Calò un silenzio improvviso. Il mio momento si avvicinava. Dissi che fra tutti quegli «omis- sis» era forse giusto rispettare quelli che riguardavano i nomi degli ufficiali citati. Ma che non si poteva e non si doveva rispettare la censura su tutto il resto. E che quindi io avrei infranto quella censura e svelato i segreti. Sia i comunisti che i democristiani drizzarono le orecchie. Fu allora che aprii la mia cartellina verde e tirai fuori i fogli degli «omissis». Aldo Moro allora si scosse. Smise di fingersi distratto e si innervosì subito. Lei cominciò la lettura delle parti censurate? Sì. Io cominciai a leggere. E subito Moro tentò di interrompermi e di impedirmi di continuare. Gridava: lei da chi ha avuto quei documenti? Io risposi: guardi che non sarebbe stato difficile procurarseli quando furono esposti al pubblico. Moro allora sibilò: lei si assume una pesante responsabilità. Allora i comunisti, che si rendevano conto a fa¬ ste cose... Non si capiva tutto quel che diceva, ma ricordo che a un certo punto le sue alte grida furono sommerse dal vocione di Giorgio Amendola che, afferrato un microfono, disse a Bucciarelli Ducei: «Signor presidente della Camera, la prego di richiamare all'ordine il presidente del Consiglio dei ministri». Moro tentò di far interrompere la seduta? Altro che. Gridava a Bucciarelli Ducei che si doveva assolutamente sospendere la seduta. Intanto l'intera sinistra comunista in piedi rumoreggiava; da destra si sentivano grida e improperi, e il presidente della Camera scampanellava vanamente. E lei che cosa fece? Gridai anch'io: signor presidente, devo avvertirla che se davvero volesse sospendere la seduta io intendo avvalermi dell'articolo 73... Cioè? Si sarebbe dovuto votare: io avevo visto che le sinistre erano in maggioranza. Tutti rimasero inchiodati ai loro banchi. I comunisti seguitavano a rumoreggiare, non la piantavano più e di fatto mi impedivano di parlare. Così gridai anche contro di loro. Lei disponeva di tutti gli «omissis»? Sì, ma non li avevo portati tutti in aula. Avevamo scelto soltanto quelli che dimostravano anche l'animus, la mentalità del colpo di Stato. C'erano parole che avevano soltanto un valore cospirativo, losco, vespertino, nulla di militare: e che erano state pudicamente omesse proprio perché mostravano la cattiva coscienza dei golpisti. Per esempio, parole come «nottetempo»; l'espressi ne «Per essere stati poi fatti proseguire via mare o via aerea per un'isola di cui fu fatto un vago cenno...», fino all'«omissis» del generale Celi, dove diceva: «Il piano era in una sola copia, che io avevo battuto a macchina nel mio ufficio di Napoli». Quelle erano prove di una cospirazione interna alla stessa arma dei carabinieri, altro che piano di emergenza per l'ordine pubblico, come aveva poco prima detto lo stesso Lami. Riuscì a continuare fino in fondo? Sì. Lessi tutti quegli «omissis» e poi arrivai alle liste di proscrizione. Leggevo nomi, decine di nomi, e Moro riprese ad agitarsi: «Da chi ha avuto questi nominativi?» gridava. E io: dalla segreteria nazionale del pei. Le liste di proscrizione coincidevano quasi completamente con la struttura comunista, regione per regione. Lessi quelli delle Marche e della Lombardia, non ce la facevo più, parlavo da ore... Moro si placò? Si rimise a fare l'indifferente. Allora fui io a sfidarlo: signor presidente, gli dissi, se lei pensa che io stia mentendo, la prego, mi dia del mentitore; sarei lietissimo di sottopormi al giudizio della commissione disposta dal regolamento in questi casi... Moro accettò la sfida? No. Con gesto di condiscendenza disse: «Lei quei nomi non li ha mai visti! Vada a risponderne al suo partito, se crede». E finì la seduta. Beh, feci una chiusa un po' retorica su Gramsci e il tentativo reazionario di Tambroni, e il presidente chiuse la seduta. L'aula si vuotò, ma fuori, su piazza Montecitorio, si era formata una grande ressa. Quindi, da quel giorno, gli «omissis» della relazione Manes, quelli che lei almeno aveva scelto fecero parte degli atti parlamentari. Che effetto le fa vederli riapparire oggi? Devo dire, un effetto curioso. Siete proprio voi giornalisti che mi preoccupate. Come si fa ad [ | [ [ | ignorare in modo così assoluto i dati di fatto? Cos'è? Oblio? Rimozione? Non capisco. Sa com'è, onorevole: secondo un consolidato luogo comune, non c'è niente di più inedito dell'edito. Sta di fatto che da quel giorno è passato poco meno che un quarto di secolo e non tutti ricordano. Senza saper distinguere fra ciò che già si sapeva, da ciò che ancora non si sa, si perde di vista il fatto che ancora non sappiamo tutto. Paolo Guzzanti

Luoghi citati: Germania, Lombardia, Marche, Napoli, Praga, Roma