Michelucci 100 anni d'architetto

Morto a Fiesole due giorni prima di compiere il secolo: maestro del '900 Morto a Fiesole due giorni prima di compiere il secolo: maestro del '900 Michelucci, 100 anni d'architetto La stazione di Firenze, l'opera più famosa FIRENZE IOVANNI Michelucci, il «grande vecchio» dell'architettura italiana, non ce l'ha fatta a festeggiare il suo centesimo compleanno che sarebbe caduto oggi e in occasione del quale da tempo si stavano organizzando grandi festeggiamenti. Il celebre architetto si è spento nel pomeriggio dell'ultimo giorno dell'anno nella sua villa adagiata sulla collina di Fiesole. Negli ultimi tempi il maestro aveva avuto qualche acciacco ed era stato costretto a ripetuti controlli in ospedale 0FIRENZE GGI Giovanni Michelucci avrebbe compiuto cent'anni. Il grande architet to toscano desiderava soltanto una torta con una candelina - una, come il secolo che ha vissuto -, ascoltare un buon concerto, non essere disturbato e lavorare. Sì, lavorare. Perché Michelucci stava progettando il nuovo ingresso agli Uffizi da piazza Castellani, «una costruzione magica - come diceva lui stesso -, una lanterna preziosa, sfaccettata come un cristallo di quarzo, come un diamante: la porta di un mondo fantastico e di favole. Le guglie, le cuspidi delle eornici dei quadri del Medioevo mi suggeriscono torri cuspidate, di diverse altezze, a coronamento della costruzione di vetro appoggiata al prospetto degli Uffìzi su piazza Castellani, come in quei Paesi fantastici e in quelle case che si vedono dipinte nei quadri del Due e Trecento». Il progetto e stato presentato ai fiorentini, e bene accolto, anche se le decisioni finali non spettano a loro: «Non so - diceva - se quanto immaginato potrà realizzarsi, ma questa occasione ha significato per me un'altra straordinaria esperienza»: sperimentare ancora, a cent'anni, raccogliere l'eredità del passato e trasformarla, farla presente, sentire il luogo e il tempo. E' di qualche tempo fa un nostro incontro nella sua casa di Fiesole, altissima sopra il colle, dominante la valle dell'Arno, Firenze e i suoi monumenti, la campagna ondulata. E' l'ora del tramonto, la stanza va pian piano oscurandosi. Vado a chiedergli qualche testimonianza sull'architettura italiana del Novecento. Il discorso si allarga: nella penombra, Michelucci, appena rientrato dall'ospedale, parla a lungo, quasi a se stesso. «Penso che l'architettura sia ancora un fatto di poesia, di grande poesia - dice -. Farà ridere sentire oggi un architetto che parla di poesia, dopo certe realizzazioni internazionali. Non l'ho mai concepita per il bisogno e basta, ridotta a dare il minimo di quello che può dare. Voglio ricordare un particolare che mi ò caro: una sera mi trovavo con Le Corbusier in piazza del Duomo. Era l'imbrunire, l'ora meravigliosa di Firenze, e Le Corbusier cominciò a girare intorno al Battistero, lentamente, lentamente, come assaporandolo, come scoprendolo per la prima volta. E andava lisciando i marmi, finche a un certo momento mi disse: questa ò la più grande architettura d?! mondo. Era arrivato a ma nulla faceva prevedere la fine. Giovanni Michelucci era nato a Pistola il 2 gennaio del 1891. Figlio d'arte, si specializza nell'artigianato del ferro battuto in stile Liberty; quindi si iscrive all'Accademia di Belle Arti di Firenze dove nel 1911 si diploma. Allo scoppio della grande guerra viene spedito col grado di tenente sul fronte orientale e proprio qui realizza il suo primo lavoro: una cappella costruita nel 1916 a Caporetto. Alla fine del conflitto intraprende la carriera universitaria e di architetto che si svolge tutta tra Firenze e Bologna, con una parentesi romana che gli permette di collaborare con Marcello Piacentini alla progettazione di due istituti della cittadella universitaria. La sua opera più nota è la stazione ferroviaria di Santa Maria Novella a Firenze (1936), considerata la massima espressione del razionalismo. Del 1960 è invece la chiesa di San Giovanni Battista, più conosciuta come chiesa dell'autostrada, e dello stesso periodo le chiese di Borgo Maggiore a San Marino e di Longarone in provincia di Belluno, dedicata alle vittime del Vajont. «Ci feci sopra un teatro - diceva Michelucci - perché volevo uno spazio dove la gente potesse fare assemblea, per testimoniare che la disgregazione e la violenza degli uomini e della natura potevano essere vinti proprio là dove il disastro aveva seminato morte». A Firenze Michelucci ha lasciato traccia un po' ovunque: suoi i progetti della cappella funeraria del cimitero di San Miniato, della sede della Cassa di Risparmio, di quella della Sip e delle Poste. Di recente aveva firmato l'allestimento del giar- dino interno al carcere di Sollicciano e, nelle ultime settimane, aveva disegnato il nuovo ingresso degli Uffizi. Secondo le sue disposizioni, la salma di Giovanni Michelucci sarà cremata oggi e le ceneri tumulate nel giardino della fondazione che porta il suo nome e che ha sede nella sua abitazione, accanto a quelle della moglie Eloisa, morta nel 1974. All'atto funebre, rispettando la volontà dell'architetto, assisteranno soltanto familiari e stretti collaboratori. Francesco Matteini Giovanni Michelucci. Era convinto che l'architettura fosse ancora un fatto di grande poesia chiedere all'architettura. Sembra quasi che la gente stia ancora costruendola. Ricordo un particolare: portai a Siena gli scolari di una scuola media, una volta. Quando arrivarono, quei ragazzi si buttarono nella piazza a braccia larghe. Proprio stavano godendo la natura, il mondo. Erano pieni di amore. Questa è la realtà». Rifiutava ogni etichetta, ogni scuola: «Niente, niente, io sto sognando. Alla mia età non c'è che questo. Tradurre tutto in questa illusione in cui ci sono le case che convivono con la luna, con le stelle, con i boschi, con i fiumi. E dentro questo involucro c'è la vita, che vuol dire incontrarsi, volersi bene. Se guardo un'opera del Rinascimento sento che c'è dentro una partecipazione amorosa alle cose, c'è la presenza dell'universo». Parlava del suo lavoro: «Ho fatto delle case. Due o tre opere, piccole cose che resistono al tempo. Non ho altra ambizione. Più che altro, sono uno che fa progetti difficili da realizzare. Ho fatto la chiesa di San Marino, che è un racconto, una novella, o quel che vuole... Se entro neila chiesa di San Marino, o in San Giovanni Battista, qui sull'autostrada, ho voglia di cantare... Lo sa che vado a studiare architettura nei boschi? Ho trovato zone di sole e ombra e gente che si distende nel verde... è uno spazio che la natura rivela... L'uomo e la natura sono una cosa sola. «Senta, particolarmente d'inverno, la mattina presto, mi alzo, spalanco le finestre e mi metto a guardare. Quel che si vede: la luna piena, magari le stelle, in questo buio del mattino in cui appena appena comincia la vita. E allora - confesso la verità sento un'emozione, un bisogno di dedizione, a Dio, alla creazione, a tutto quel che si può. E sento che solo allora sono in grado di fare una piccola cosa di architettura. «Ma quello che faccio deve... cantare. Conosce Vicenza? C'è una piazza stupenda del Palladio, e un corso con tanta gente. Ero andato lì per una giornata. A un certo momento dalla folla si staccarono tre giovani. Ero con un architetto, imponente, con la barba... Ci corsero incontro, ci abbracciarono. Non sapevamo nulla di loro e loro nulla di noi. Ma era avvenuta una cosa immensa. Si cominciò a guardare la città come un luogo dove era possibile un avvenimento di questo genere. Ecco, questa è l'architettura». Lela Gatteschi