Redford: «Hollywood la pagherai!»

Redford: «Hollywood la pagherai!» Incontro con l'attore, regista di «A river runs through it», film di poesia e di successo Redford: «Hollywood la pagherai!» Bob è amico del vicepresidente Gore prevede più tasse ai ricchi executives LOS ANGELES. Robert Redford, a Hollywood, non si è mai sentito a suo agio. Da oltre un decennio la sua base è a Sundance, nelle montagne dello Utah. E' il suo santuario, lontano dall'attenzione dei media e dei Signori che reggono gli studios. Ogni gennaio organizza un festival del cinema indipendente ed è da qui, da queste foreste rimaste intatte come erano ai tempi degli indiani, che dirige il suo centro per gli studi ambientali. Ma ogni tanto anche Redford deve abbandonare il suo eremo e scendere a Los Angeles. Una città che conosce bene, qui dopo tutto ci è nato. E la freddezza con cui, all'inizio, è stata accolta la sua decisione di portare sullo schermo «A river runs through it» lo ha tutt'altro che sorpreso. Come proporre un film sulla pesca con la mosca e di nostalgia per il Montana rurale dell'inizio del secolo in una città che sa solo produrre seguiti di action movies inverosimili? Come vendere parole, ritmi, suoni, emozioni a executives ossessionati da storie di donne bisex che uccidono i loro amanti con i punteruoli? Ma «A river runs through it», a sua volta, era diventato l'ossessione di Redford. Appena finito di leggere la breve storia autobiografica di Norman Maclean sapeva che avrebbe dovuto farne un film e iniziò il lungo corteggiamento al suo autore. Il quale, di Hollywood non voleva proprio saperne, temeva che il suo delicato e poetico lavoro sarebbe stato travisato e stravolto. «Voglio vedere se è possibile fare un film letterario e centrato attorno al suo linguaggio», gli disse Redford. Dopo un estenuante tira e molla, Maclean ha accettato. Poco dopo, moriva, ma Redford, che ha diretto e che funge da narratore, ha saputo fare di più che mantenere la sua promessa. Perché «A river runs through it», contrariamente alle aspettative di tutti i «conoscitori» di cose hollywoodiane, si è rivelato anche un sorprendente successo commerciale, portando all'attenzione di milioni di persone la passione di Maclean per la pesca, l'amore per il Montana e i segreti della famiglia. In «A river runs through it» Redford ci ha messo tanto di suo che, per l'occasione, ha accettato quello che per lui è uno dei supremi sacrifici: è venuto a Los Angeles e ha accettato di dare interviste. Quando compare, jeans, t-shirt nera e giacca a quadretti, sembra di ritrovare lo stesso uomo de «La stangata» e di «Butch Cassidy»: biondissimo, un po' scanzonato, con i lineamenti perfetti e questa faccia da eterno adoloscente. Ma anche lui ha passato i cinquanta e se lo si osserva più da vicino, questo è un volto segnato dal tempo e dal sole. E nel suo sguardo, oltre che l'aria di un ragazzino che ha avuto tutto facile dalla vita, è facile riconoscere l'uomo che esce con queste espressioni: «La vita è essenzialmente triste, e una parte di questa tristezza è nel mio lavoro». Anche per uno che si chiama Redford non deve essere stato facile convincere uno studio a produrre un film sull'arte della pesca con la mosca. «In effetti, quando giravo per Hollywood con "A river runs through it" in mano non è stato il mio maggior momento di gloria. Ma dietro la semplice storia di una piccola famiglia nello Stato del Montana ci sono dei temi universali come l'amore e le sue complicazioni, la storia di un'America in cui la terra era pura, e la tristezza per quello che abbia- mo perso. E in più c'era la storia quasi biblica della rivalità e l'amore tra due fratelli e dell'eredità tra padri e figli. Insomma, un film sulla vita, sulle sue gioie e i suoi dolori. E i suoi misteri». E anche un film dì nostalgia per una natura che non c'è più, in un rapporto con l'ambiente che sembra avere un aspetto quasi mistico. «Sono stato molto influenzato dagli indiani d'America. La loro vita e i loro costumi a un certo punto hanno iniziato ad attrarmi irresistibilmente. Non me lo sa¬ pevo spiegare e solo dopo molti anni, andato oltre il piacere per la natura che provi quando sei ragazzo, ho imparato a vederla come parte di un disegno più largo e quasi religioso». E' per questo che è diventato uno strenuo difensore della causa dell'ambiente, ben prima che diventasse una scelta che fa moda? «Abbiamo avuto due Presidenti, Reagan e Bush, che sono stati un vero orrore per il nostro ambiente. Così cinici. Ma adesso, con un vicepresidente come Albert Go¬ re, un uomo con cui ho lavorato in passato, almeno abbiamo qualcuno in alto che tenterà di fare quello che è possibile. Non sarà facile, perché per correggere i danni arrecati negli ultimi dodici anni ce ne vuole. Ma non sarà necessario intervenire con¬ tinuamente e penso che potrò dedicare più tempo alla carriera che nell'ultimo decennio». A proposito di nuova amministrazione, pensa che ci saranno dei riflessi nel mondo del cinema? «Si prevede che aumenteranno le tasse per i ricchi e siccome i nostri executives sono estremamente ricchi e tremendamente interessati al denaro, un primo risultato è già davanti ai nostri occhi, e sono tutti questi executives che corrono a vendere le loro azioni. Sul piano artistico, c'è molto entusiasmo e sollievo perché sar mo in grado finalmente di iniziare a rappresentare la diversità delle nostre vite. Per dodici anni, tutto quello che c'era era il profitto, l'ingordigia era diventata una religione. Adesso, spero, ci sarà un clima che conduce a film diversi e più umanistici». Con i democratici o con i repubblicani, Hollywood resta centrata attorno al denaro. E' così diffìcile restare fedeli a se stessi? Anche uno con il potere di un Redford deve pagare i suoi prezzi? «Io mi sento molto fortunato. Ho dovuto condurre le mie brave battaglie, ma mai così dure. E alla fine sono riuscito a fare i film che volevo fare e quelli che erano importanti per il mio spirito. Ho fatto film come "Il candidato" e "Jeremiah Johnson" e "I tre giorni del Condor" e "Tutti gli uomini del Presidente" e ne sono grato. Film in cui ho detto quello che volevo dire senza dimenticare che il primo scopo del cinema è intrattenere. Ma allo stesso tempo bisogna sempre tenere presente che Hollywood è prima di tutto un business, che la sola istanza in cui l'arte viene accettata è quando genera quattrini. E se vuoi fare un film che è un po' rischioso, allora devi lavorare il doppio. Ed essere pronto lungo la strada a fare dei sacrifici. Ma per quanto mi riguarda, ripeto, non mi lamento». Se si è rifugiato nelle foreste dello Utah, anche Redford ha avuto le sue occasioni per meditare sul rapporto tra fama e privacy... «Sono in una professione pubblica, ma non ho mai sentito che per questo sono tenuto a dare ragione al pubblico della mia intera vita. Se recito in un film, gli spettatori e i critici mi giudicheranno ed è un loro diritto. Ma il resto della mia vita voglio tenerlo per me ed è quello che sto cercando di fare, anche se mantenere una vita normale è dura. Perché i giornali, specie negli ultimi anni, sono sempre più fanatici. Passa di tutto e non hai alcun controllo». Tornando ai temi di «A river runs through it», ha accennato a ciò che i padri tramandano ai figli. Lei cosa lascerà ai suoi? «In qualche modo l'ho già fatto. Ho comprato la terra nello Utah e l'ho sviluppata in un modo che spero sia di esempio. Perché non vorrei sembrare melodrammatico, ma sarà sempre più difficile trovare angoli dove rifugiarsi e stare tranquilli e trovare l'energia spirituale. Ho sempre incoraggiato i miei figli anche ad avere le proprie vite e a sviluppare un pensiero indipendente». Visto che siamo in tema, un'ultima domanda: come le piacerebbe venire ricordato? «Per il mio lavoro. Perché alla fine, quanto tutto sarà finito, ci sarà un corpo di lavoro che aiuterà a spiegarmi, e vorrei venire giudicato sulla base di quello che ho fatto nell'interesse del pubblico». Lorenzo Sona Sempre controcorrente, ha realizzato un lavoro sulla pesca e sulla nostalgia ispirato alla storia autobiografica di Norman Maclean tastminriotirompmrePc'erAchu«dblcnHttrgsqmcsnplaatuvt Robert Redford in una scena di «Tutti gli uomini del presidente». Sotto a sinistra con Jane Fonda in «A piedi nudi nel parco»