Ronchey: così farò entrare il business nei musei italiani di Maria Grazia Bruzzone

Ronchey: così farò entrare il business nei musei italiani «La nuova legge consentirà ai privati di gestire i servizi» Ronchey: così farò entrare il business nei musei italiani INTERVISTA LA SFIDA DEL MINISTRO LROMA E più gradite sono state le congratulazioni del presidente dell'Unione Internazionale degli Istituti di Archeologia, Storia e Storia dell'Arte, lo svedese Cari Nylander, che gli ha mandato mia lettera a nome della comunità scientifica internazionale. Un messaggio che si compiace col ministro dei Beni Culturali per il suo decreto legge sui musei, anche se non è tenero con l'Italia, il cui «patrimonio culturale ineguagliabile fino a oggi non era sufficientemente valorizzato o era addirittura inaccessibile». Dietro la scrivania di ministro Alberto Ronchey mostra la lettera, visibilmente soddisfatto. La mobilità del personale dei Beni Culturali; la creazione di circuiti audiovisivi di sicurezza 24 ore su 24; l'istituzione, all'interno dei musei, ma affidata ai privati, di bar, caffetterie e negozi che, come all'estero, vendano ogni sorta di riproduzioni artistiche. E' quasi una rivoluzione. «In realtà è solo la premessa della riforma organica dei musei che potrà avvenire solo in un secondo tempo. Ma stabilire un sistema di autonomia dei musei con incasso diretto dei fondi, con una personalità giuridica che oggi non hanno, con nuovi rapporti con le sovrintendenze, era assai diffìcile. Così abbiamo pensato di accelerare i tempi con una riforma parziale: il decreto legge che l'altro ieri è passato alla Camera. Per la prima volta senza un solo voto contrario. Un favore che mi autorizza a sperare». Cosa cambierà concretamente, e quando? «Prima del 16 gennaio il decreto dovrebbe essere convertito in legge. Quindi, entro 90 giorni, dovremo emanare un regolamento di attuazione. Non sarà un compito semplice. Per capire le contraddizioni davanti a cui siamo, basta qualche esempio. A Parigi il Louvre annuncia il Grande Louvre: 36 sale in più entro il 1996, per le quali lo Stato ha stanziato 5 miliardi e 600 milioni di franchi. Vale a dire 1560 miliardi di lire. Più o meno quel che l'Italia stanzia per tutti musei, gli archivi, le aree archeologiche, le biblioteche. E questo dei fondi non è che un parametro». E gli altri? «Un altro riguarda la struttura dei musei. Nella Comunità Europea il personale scientifico museale rappresenta il 23% degli addetti, in Italia è il 15,6%; il personale tecnico nella Cee è 15,5%, da noi solo il 9,6%; al contrario, i custodi, che in Europa sono il 28,1%, in Italia arrivano al 54,5%. E i custodi sono distribuiti irrazionalmente, per una vecchia legge che imponeva un'inamovibilità della mano d'opera». I sindacati le hanno imposto dei limiti. «C'erano problemi reali legati alle difficoltà di alloggio che nascono coi trasferimenti. Abbiamo cercato di risolverli con alcune formule, per esempio la temporaneità, che certo cozza con esigenze concrete. Ma quel che conta è che si cominci. L'importante è che il termine di paragone si sposti dall'esigenza del singolo al confronto con gli altri Paesi». Un'altra soluzione ai problemi di personale sarà il monitoraggio audiovisivo. «Esattamente. Non volevano che si parlasse di audiovisivo. Ma è proprio quel che desideriamo che sia. Come al Kunsthistorisches Museum di Vienna, che cito sempre, dove se ci si avvicina troppo a un quadro si sente una voce che dice "un passo indietro" in quattro lingue, in genere la prima è l'italiano. Un altro aiuto verrà dall'uso effettivo dei volontari. Uso effettivo, dico, di un volontariato speciale, culturale, qualificato. Avendo abolito il tesserino che equiparava il custode a un agente di custodia, adesso i volontari potranno fare tutto, dai custodi alle visite guidate». E i privati? «Se i musei funzionano e restano aperti secondo le esigenze del pubblico, ecco che si può pensare di istituire, facendo entrare i pri vati con gare d'appalto, quei servizi di merchandising che sono già così opulenti al Metropolitan di New York come al Louvre, alla National Gallery o al British Mu seum. Non solo libri e cataloghi ma riproduzioni a due dimensioni, a tre dimensioni e videocassette. Il Louvre ne fa di straordi narie, commentate da critici ma fortemente divulgative». Nei grandi musei stranieri vendono addirittura foulard che riproducono quadri famosi, o gioielli che sono il calco di quelli di una principessa egizia, esposti nella teca del piano di sopra. «Infatti. Noi avremmo da fare tutta la gioielleria etnisca, romana e chissà che altro. Non si tratta di cose triviali, ma di innestare una sorta di spirale per cui l'efficienza del museo rende possibile e redditizio il merchandising, e questo dà profitto. Il Metropolitan fattura 80 milioni di dollari l'anno». Il Metropolitan è molto più grande del nostro massimo museo, gli Uffizi. «Questa è un'obiezione ricorrente. Alla quale rispondo che in compenso abbiamo 800 musei più piccoli, sparsi sul territorio. Si tratta di creare una rete, per assicurare l'economicità dell'impresa. E garantirne la qualità, oltre che il pagamento allo Stato dei diritti di riproduzione. Oggi, non solo ci si limita a vendere i modellini del Colosseo o della Torre di Pisa, ma né la città né i musei ci guadagnano. Lo stesso per le caffetterie e i ristoranti. E vero che nei nostri musei c'è poco spazio. Ma nelle aree archeologiche ce n'è molto e lo si potrebbe sfruttare meglio. E tanti abusivismi andrebbero eliminati». La gente nei musei ci andrebbe più volentieri. «Parlano i dati. Il Louvre ha 5 milioni di visitatori l'anno. Il British 4 milioni, e mezzo. La National Gallery 3 e gli Uffizi meno di 1 milione. Più efficienza significa più affluenza, che si tramuta in reddito. E il denaro può essere destinato al singolo museo o ridistribuito». Battaglia quasi vinta, dunque, quella dei musei. Come quella di Palazzo Barberini, riconquistato sfrattando il circolo ufficiali. Invece Gian Paolo Cresci ha .vinto il ri-. corso al Tar contro il decreto che vietava all'Opera di usare le Terme di Caracalla. «Su Caracalla, come sii piazza San Marco, si scontrano tre tesi. Quella degli storici dell'Hate, per i quali il monumento deve fare il monumento e basta. Quella di coloro che di arte capiscono poco e sostengono che il monumento deve fruttare soldi anche a rischio di venir usurato». Poi c'è la tesi di chi, come Gae Aulenti, dice che i monumenti sono stati fatti per essere vissuti. «Gae Aulenti forse non sa che nel caso di Caracalla ciò significa imprigionare il calidarium e Ufiigidarium nei tubi Innocenti e sottoporli a pesi paurosi. Per una tradizione che dura dal '37 e per avere turisti e denaro. Ma non è vero affatto. Caracalla, che doveva colmare i buchi dell'Opera di Roma, ha incassato nel '92 3 miliardi e 383 milioni. Mentre i suoi costi sono arrivati a 12 miliardi e 625 milioni. Che facciamo allora? Finanziamo il turismo e la nomenclatura romana che riceve i biglietti da Cresci?». Maria Grazia Bruzzone MHK» C| Sv A destra le Terme di Caracalla. Il ministro Ronchey aveva vietato all'Opera di Roma di usarne le strutture Caracalla Sopra Gian Paolo Cresci che ha vinto il ricorso al Tar sull'uso di

Persone citate: Alberto Ronchey, Barberini, Cresci, Del Ministro, Gae Aulenti, Gian Paolo, Gian Paolo Cresci, Ronchey

Luoghi citati: Europa, Italia, New York, Parigi, Roma, Vienna