Lo zapping, un assassino di Alessandra Pieracci

Lo zapping, un assassino A colloquio con Edmo Fenoglio passato dalla tv al teatro Lo zapping, un assassino Dai «Giacobini» al silenzio: «Questa Rai è folle» Ora è regista d'un Feydeau tradotto inpiemontese TORINO. Oltre nove milioni di telespettatori per l'ultima puntata della «Piovra 6» su Raiuno, ma dall'altra parte c'è l'insuccesso di film a puntate come «Il coraggio di Anna» della Fininvest e il pavido surgelamento di altri titoli come «Missione d'amore» di Risi, «Nero come il cuore» di Ponzi con Giannini, «Due vite, un destino» con Fabio Testi, Michael Nouri e Carol Alt. Che cosa è successo al vecchio, glorioso sceneggiato tv? «Ucciso dallo zapping». Edmo Fenoglio, 62 anni, torinese, l'uomo che nel 1960 portò la rivoluzione nei tinelli italiani con «I Giacobini» di Zardi, inchiodando il pubblico alle sedie per seguire il conflitto tra Serge Reggiani e Warner Bentivegna, non ha dubbi. «Allora, lo spettacolo televisivo unico permetteva di organizzare il discorso con un soggetto, un predicato, un subordinato. Oggi siamo arrivati all'appiattimento del linguaggio e alla nullità del discorso. Si fa robaccia interpretata da attori casuali, senza scuola, senza palestra. Risultato, la saturazione, con i telespettatori che cercano inutilmente un dialogo, un confronto, una tensione per pensare ed elaborare. Non bisogna sottovalutare il pubblico, che è perfettamente capace di apprezzare un'offerta di livello superiore quando ci si mantiene un gradino più su, senza esagerare». «La Rai aveva molto tentennato prima di dare il via all'operazione "Giacobini". Dato che non c'era la grande storia d'amore, si pensava che lo spettacolo non risultasse popolare. Invece le vicende di quegli uomini terribili che volevano cambiare il mondo appassionò la gente oltre ogni limite. Il segreto? Se- condo me l'attualità del tema della politica come passione, ovvero l'antagonismo tra chi appunto vuole cambiare il mondo e chi no». Andò tanto bene «che mi chiesero subito di fare il seguito, "I grandi camaleonti", storia di Napoleone e di come riuscì a soffocare la Repubblica nata dalla rivoluzione». Ma Fenoglio fece centro anche con il romanzo popolare: suo quel «Conte di Montecristo» che trasformò il semisconosciuto Andrea Giordana «in una specie di Principe Azzurro che le ragazze si sognavano di notte». Accanto a Fenoglio, c'erano Anton Giulio Majano («Piccole donne», «Delitto e castigo», «La cittadella», «La freccia nera») e Sandro Bolchi («Il mulino del Po», «I Promessi Sposi», «I miserabili», «Anna Karenina»). «Majano era ingenuo ma totale, i suoi lavori erano l'equivalente dell'odierno "Beautiful" - dice il non tenero Fenoglio -. Bolchi invece era più vicino alla "Piovra", con la glacialità del suo gran mestiere, il cinismo della non partecipazione. Come dire, so quello che volete e ve lo do». E al posto di Fenoglio oggi chi c'è? «Nessuno. Non ci sono più i "Giacobini" andati distrutti nella follia di una Rai improvvida e non c'è più posto né per me né per uno come me». Così il regista è tornato all'antico amore, il teatro, e non lo lascia più. Una passione esplosa ai tempi dell'Università (Fenoglio è laureato in matematica) quando frequentava il Centro teatrale universitario insieme con Marco Pannella, Rino Formica, Pio De Berti. Una passione coltivata all'Accademia d'arte drammatica di Roma, accanto a Vitti, Aldini, Mauri, Graziosi, Ronconi. Già, Ronconi. Qualcuno insinuò, tempi addietro, che la sua scelta registica fosse stato un ripiego per «cagneria» d'attore... «Macché. Era molto bravo, soprattutto nelle parti comiche». Alla tv di oggi Fenoglio ha rubato Bruno Gambarotta, l'insuperabile maggiordomo di Celentano in «Svalutation» promosso direttore d'albergo nello spettacolo che debutta stasera al teatro Erba, «La rata voloira», ovvero traduzione e adattamento torinese (Brasa, Fenoglio, Lori) della «Pulce nell'orecchio» di Feydeau, protagonista Mario Brasa, nell'allestimento della Compagnia Comica Piemontese. Che senso ha un'operazione come questa? «Il teatro piemontese ha prodotto una delle più belle commedie italiane, "Le miserie di Monsù Travet", poi ha gettato la spugna, abbandonandosi alle risate sui villici, rinunciando ad esprimere sulla scena la società borghese contemporanea. Abbiamo cercato un testo comico che consentisse di dipingere un quadro della borghesia piemontese alla vigilia della grande esposizione dell'I 1, alla vigilia della campagna di Libia». Ma perché Feydeau? «Perché nella società borghese esiste la serratura, si rafforza il concetto di proprietà. E Feydeau le porte le spalanca a mostrare quei riti che i ricchi scimmiottavano dall'aristocrazia». Alessandra Pieracci Teleromanzi che fecero epoca «Oggi c'è soltanto robaccia interpretata da attori casuali» Nella foto piccola Edmo Fenoglio. A destra Bruno Gambarotta e Mario Brasa in una scena de «La rata voloira»

Luoghi citati: Libia, Majano, Roma, Torino