Lenci, il kitsch più caro al mondo

Lenci, il kitsch più caro al mondo Bambole e statuine: catalogato un universo sottilmente rivoluzionario Lenci, il kitsch più caro al mondo Piccole donne di fango MA no, Lenci non mi pare solo Kitsch, anche rivisto oggi. Corrisponde a un tipo di gusto tra li I berty e déco. E' il simbolo di una borghesia trionfante, degli Anni Trenta. Certo, un universo piccolo, fuori da ogni ideologia, non sfiorato né da marxismo, né da liberalismo. In fondo, ciò che era, allora, la gran massa della gente». Gillo Dorfles si rallegra all'idea di un ritorno d'attenzione su quel marchio da parte degli studiosi del costume. Un microcosmo popolato di bambole, di feltri audacemente lavorati e applicati anche ai libri, di statuine tenere e ironiche che nel periodo tra le due guerre ha invaso il mondo partendo dal modesto laboratorio in una viuzza della Torino classica, perbene e sottilmente rivoluzionaria. L'occasione è offerta, a lui e a noi, dalla pubblicazione di un documento insolito per un Paese straripante di opere di importanza storica troppo spesso ignorate, dimenticate o mal conosciute: Le ceramiche Lenci 1928-1964 è il Catalogo generale dall'archivio storico della manifattura, uscito in questi giorni da Allemandi con l'introduzione di Alfonso Panzetta. Dorfles, maestro di mode e modi, raccomanda naturalmente: «Attenzione, non vi si cerchi l'arte, piuttosto il grande artigianato». E attraverso la policroma carrellata su quasi quarantanni di alterna creatività, il libro sembra confermare questo giudizio. In realtà, non ricomincia da oggi l'esame delle «buone cose di pessimo gusto» prodotte dalla ditta inventata nel 1919 (e durata sino al '64 ma cambiando padroni) da una straordinaria ragazza di origine tedesca, Elena Kònig, al termine di un lungo vagabondaggio europeo. Dopo un periodo di «rifiuto» negli Anni 50 e 60, per una sorta di epurazione magari anche politico-sociale, la «passione» Lenci riesplode all'inizio dei '70 insieme ad un collezionismo rampante. Dall'Italia ma anche dall'Inghilterra le donnine espressioniste di Gigi Chessa e i vasi con i «ghirigori del cuore» di Mario Sturani, fi- nissimo pittore e dotto naturalista, varcano l'oceano: molto amati soprattutto dai galleristi newyorchesi. Prezzi alle stelle: 7-8 milioni alle aste per uno degli stupendi animali di Felice Tosalli, per una Madonna di Gino Levi-Montalcini, per gli Arlecchini di Giulio Da Milano. «Quotazioni forse eccessive; legate ad un andamento abnorme del mercato dell'arte in generale - sottolinea Antonino Rigano che ha curato nell'83 al Centro Internazionale Brera di Milano una mostra di ceramiche Lenci ordinata per autori ora si sta tornando all'equilibrio». La famosa Nella firmata da Elena Kònig del '30-'31, incrocio tra la freschezza furba della sartina e i sogni un po' vani della studentessa, vale tra i 5 e gli 8 milioni contro i 10 di qualche anno fa. «Lenci - continua Rigano - resta in ogni modo la griffe più costosa al mondo, nel suo genere e per il suo periodo migliore, tra il '28 e il '36. Nessun confronto possibile, anche nei prezzi, con la quasi gemella viennese Goldscheider, meno sofisticata, meno inventiva». Soltanto i vasi neoclassici di Giò Ponti per Doccia-Ginori toccano, al momento, vette più alte: 15-20 milioni. «Una situazione che, pur ridimensionata, mi ha costretto a parecchie rinunce confessa Luisa Monti Sturani che nel tempo ha cercato di ricomprare tutto il possibile tra le opere del marito scomparso nel '78 -, ho dovuto fermarmi di fronte a certe cifre. Temo siano stati i giapponesi a drogare anche il nostro mercato». Il valore vero di questi «ninnoli stupidi e graziosi», come li chiamava Sturani che pure gli ha dedicato la vita, non sta lita dei Venti e dei Trenta, di Gualino e di Casorati, di Gramsci e di Benedetto Croce; quella, soprattutto, di Augusto Monti e di Antonicelli; la Torino cresciuta nelle aule del liceo d'Azeglio, il grande punto di partenza nella formazione dei Mila, dei Bobbio, dei Pavese. Con questo mondo di intellettuali, alcuni dei quali futuri maìtres-à-penser di una nazione alla ricerca di se stessa, c'è da chiedersi che cosa potesse aver da spartire la bionda «Lencina», rimasta parecchio nordica, anche dopo il matrimonio con il giovane Enrico Scavini, infaticabile animatore della comune azienda. «La vocazione alla libertà», risponderebbero certamente Sturani e Chessa, i due più fedeli tra i numerosi artisti, da Mastroianni a Dudovich a Quaglino, che operarono negli anni d'oro per la sigla Lenci opportunamente nobilitata da Ugo Ojetti con il motto-acronimo «Ludus est nobis constanter industria». Il gioco però non bastava in quel laboratorio di bambole e di donnine nate dal fango verniciato. Si cercava il rapporto umano, l'amicizia (come Elena di continuo sottolinea nella piccola biografia Una bambola e altre creazioni, uscita postuma due anni fa per Il Quadrante). Entrambi traguardi dannosissimi per gli affari. Così un dolente giorno del '36 la piccola-grande azienda percorsa dal messianico umanitarismo socialista della sua inventrice ha dovuto passare di mano. E addio ai buffi omini sempre in bilico su quell'abisso che Sturani sentiva sempre più minaccioso e vicino. Dorfti es: «Simbolo della borghesia trionfante negli Anni 30» Piccole donne , «Damina in poltrona». A destra, Helen Kònig Scavini, la fondatrice genere di gusto tra liberty e déco on mi pare anche rivirrisponde a usto tra li. E' il simia trionfana. Certo, un ori da ogni rato né da iberalismo. ra, allora, la ente». Gillo all'idea di one su quel gli studiosi microcosmo le, di feltri ati e applidi statuine e nel perioha invaso il al modesto viuzza della bene e sotaria. rta, a lui e a zione di un o per un di anza esso ate o lDorfti es: «Simbolo della borghesia trionfante negli Anni 30» Nell'immagine grande, «Damina in poltrona». A destra, «Testa paesanella», di Helen Kònig Scavini, la fondatrice della Lenci. E' un genere di gusto tra liberty e déco però nei bollettini di Sotheby's o della Finarte. Sta nel clima e tra la gente in cui sono nati. La Torino provinciale e cosmopo¬

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