Le libertà da salvare

Le libertà da salvare Gli articoli di Galante Garrone Le libertà da salvare fi HI abbia sostato sui I «taccuini di lavoro» di I Benedetto Croce - uno I i dei documenti fondaSAj mentali per la storia intellettuale del nostro secolo, stampato in numero limitato di copie numerate dalle figlie del filosofo (su sei volumi, quasi tre dedicati al periodo fra il 1940 e il 1952) - avrà notato lo sforzo costante del maestro per attenuare le superfìci di attrito «politico» con Adolfo Omodeo nell'ultimo scorcio di vita del grande storico, suo «primario» collaboratore nella Critica dagli Anni 30 in avanti. La storiografia di Omodeo era nata sul tronco della Religione della libertà, ma si era poi arricchita - trasferendo sul piano etico-politico - in quel complesso di fermenti revisionisti ed ereticali fondati sull'esperienza, inconfondibile, del partito d'azione (un'esperienza che avrà in Croce un critico e un censore severo). C'è un fedelissimo di Omodeo, ancora profondamente segnato dall'influenza di Croce, come Alessandro Galante Garrone, che oggi ricorda come massimo titolo d'onore la «doppia» fedeltà e insiste sul rapporto fra Croce e Omodeo, talmente forte e profondo da far perdonare a don Benedetto tutto, o quasi, degli atteggiamenti politici del più giovane collega. Riapro i taccuini. Il 9 gennaio del 1946 (Omodeo è già ammalato, e chiuderà la sua giornata il 28 aprile di quell'anno) Croce annota: «Mi sono chiuso con Omodeo nel silenzio, col programma di collaborare con lui nelle cose scientifiche e non prendere neppure notizia di quanto fa e dice nelle politiche». II 28 marzo incalza: «Ho scordato tutti i dispiaceri che mi ha dato negli ultimi tempi per la sua eccitazione politica, non ho pensato se non al valore dell'uomo, al nostro lavoro comune in anni dolorosi, e al nostro saldo consenso nei concetti direttivi degli studi». Gli «azionisti» e Croce Libertà liberatrice. E' il titolo dell'ultimo volume degli scritti di Galante Garrone comparsi sulla Stampa nel corso di quasi un quarantennio: non solo raccolta ma rielaborazione con appunti e osservazioni nuove, che rendono per tanti aspetti il libro uno strumento utilissimo per la storia della cultura italiana di questo quarantennio (editrice La Stampa). «Libertà liberatrice» era una formula tipicamente omodeiana. Fu rilanciata in occasione della pubblicazione del volume einaudiano Libertà e storia, curato dallo stesso Galante Garrone. Indicava il momento in cui era abbandonata la linea erasmiana ed olimpica del filosofo e in cui il problema della libertà si articolava nel problema delle varie «libertà»; da tutelare e da salvare in una prospettiva riformatrice. Gli azionisti parlavano sempre, sull'impronta rosselliana, di «Giustizia e Libertà». La «Libertà liberatrice» era nonostante tutto la formula azionista più fedele all'eredità del crocianesimo. Venne prima della «libertà propulsiva» di Guido Calogero, tutta tesa alla conquista di maggiori spazi, una libertà che doveva convertirsi in dedizione di sé agli altri, in libertà per gli altri - non solo di individui ma ceti e classi dunque in giustizia. «L'ideale della giustizia e dell'eguaglianza è lo stesso ideale della li¬ bertà, quando essa sia intesa non come la libertà che si possiede, ma come la libertà che si vuole, cioè come l'altrui libertà». Questo piccolo volume prezioso anticipa di poco i quarantanni della collaborazione di Galante Garrone alla Stampa: al centro, sempre, la rivendicazione dei diritti civili, la tutela dello Stato laico, la costante difesa del primo e del secondo Risorgimento, sentiti come un tutto indissociabile. Lo stesso Galante Garrone ci racconta, in una delle tante preziose note aggiunte al testo, che fu Giulio De Benedetti, nel pomeriggio del 25 aprile 1955, a invitarlo a scrivere sul tamburo, per la cronaca cittadina dell'indomani, una breve rievocazione dell'insurrezione partigiana di Torino dieci anni prima. Una strenua battaglia Ed ecco il magistrato-storico, autore già di opere fondamentali, che si sottopone alla prova e la supera, con un direttore esigente e difficile quale era De Benedetti, conoscitore pressoché infallibile dei gusti del pubblico. E poi qualche giorno dopo, l'invito a collaborare alla «terza pagina» e il primo articolo per il decennale della Resistenza e poi l'inizio di quella costante, strenua, generosa battaglia per l'assoluta autonomia dei giudici e contro ogni residuo autoritario. Battaglia che in questo volume si articolerà in una intera serie, la più folta, «Il giudice, la legge, la società». Galante Garrone, che dedica questo libro «alla memoria di due grandi giornalisti, Giulio De Benedetti e Carlo Casalegno» (l'indimenticabile vicedirettore della Stampa, vittima della barbarie terroristica, che fu collega appassionato e autorevole del nostro anche negli studi storici), non manca di rendere omaggio alla funzione liberale e progressista assolta dalla Stampa negli anni delle coalizioni centriste e al valore di stimolo all'esperienza di centro-sinistra, cui il giornale torinese costantemente obbedì con quella feconda e stimolatrice vena di non conformismo, che si estese anche ai campi della cultura e soprattutto del costume. Una serie di profili, taglienti e incisivi, conclude il libro. Il titolo, come sempre ispirato alle regole dell'autore, è «Giustizia e libertà: alcuni uomini». In larga misura sono gli uomini che hanno popolato quell'indimenticabile volume che si chiama / miei maggiori; si aggiunge un collega di studi che è anche un maestro a tutti noi, Franco Venturi (e proprio i due studiosi associati hanno curato per Sellerio in questi mesi la felice ristampa di un testo di Filippo Buonarroti, il primo «eroe» di Galante Garrone, intitolato La Riforma dell'Alcorano). Carlo Rosselli, Ernesto Rossi, Duccio Galimberti, Arturo Carlo Jemolo, Emilio Lussu, Leo Valiani. Sono alcuni dei contemporanei di «Giustizia e Libertà» che danno la mano, in questo libro, a Voltaire, a Beccaria, a Settembrini e a Cattaneo. E tutti uniti da una vena di pessimismo esistenziale. «A parte i guai personali c'è lo schifo di vivere in un mondo così sporco, al quale non mi so proprio adattare». E' lo stralcio di una lettera di Arturo Carlo Jemolo del 22 gennaio 1977. Sono passati sedici anni. Cosa direbbe oggi Jemolo? Giovanni Spadolini

Luoghi citati: Torino