MANI PULITE di Sergio Romano

MANI PULITE Il 20 dicembre 1892 scoppiava il bubbone della Banca Romana: Giolitti e Crispi nei guai MANI PULITE lo scandalo compie centanni /\ IUANDO un capitano dei 11 carabinieri gli consegnò I l'avviso di garanzia Cra- II xi si ritirò nella sua stan—VJ za dell'albergo Raphael e preparò una dichiarazione per la stampa. «Potrei solo ripetere - scrisse tra l'altro - ciò che ho già detto, usando il linguaggio della verità, di fronte al Parlamento della Repubblica e di fronte a tutti i responsabili nazionali che ben conoscevano l'esistenza di una situazione da lungo tempo anomala». Non è un argomento giuridico, ma è vero. Quando gli storici studieranno il 1992 dovranno spiegare perché una prassi che molti conoscevano, accettavano e giustificavano, sia diventata in pochi mesi inammissibile, perché una società «permissiva» sia diventata improvvisamente rigorosa. Potranno fare riferimento, per trovare il bandolo della spiegazione, a un'altra vicenda italiana in cui la prassi diventò in pochi giorni scandalo. La storia, che coinvolse banchieri, parlamentari, ministri, due presidenti del Consiglio e la moglie di uno di essi, accadde esattamente cento anni fa. E' lo scandalo della Banca Romana, scoppiato a Montecitorio il 20 dicembre 1892. La scoperta dell'America Come oggi il Paese era andato da poco alle urne, aveva appena festeggiato il quattrocentesimo anniversario della scoperta dell'America e stava attraversando una difficile situazione economica. Nei salotti di Roma, mentre si avvicinava il Natale e piazza Navona si riempiva di bancarelle, l'argomento del giorno era la costruzione di un grande monumento a Vittorio Emanuele II accanto al Campidoglio, per il quale occorreva distruggere tra l'altro il convento dei francescani e la torre di Paolo III. A Palazzo Braschi, dove aveva sede la presidenza del Consiglio, Giovanni Giolitti era alle prese con un altro problema di demolizione. Occorreva distruggere sei banche e costruire sulle loro macerie una banca centrale, simile a quelle che esistevano da tempo in Inghilterra (1694), in Francia (1800) e in Germania (1875). Rispetto ai maggiori Stati europei la situazione italiana era certamente anomala (l'aggettivo ;usato da Craxi) e caotica. Il Paese aveva una moneta unica, faticosamente introdotta dopo il completamento dell'unità nazionale, ma sei banche regionali, ciascuna delle quali aveva il diritto di emettere biglietti legali: la Banca Nazionale, la Banca Romana, il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito. Nel 1874 le banche furono consorziate da una legge che cercava di limitare il diritto di emissione e il governo fece qualche timido tentativo per unificare la loro gestione. Ma si scontrò con le gelosie dei singoli banchieri e con lobbies regionali che difendevano, talvolta per ragioni inconfessabili, l'indipendenza del loro istituto. Delle sei banche una, la Banca Romana, era particolarmente «chiacchierata». Secondo Nello Quilici, autore di un libro sullo scandalo, il suo governatore, Bernardo Tanlongo, era un «vecchio mercante di campagna (...), un rozzo e frusto arnese dell'affarismo romano, se¬ mianalfabeta, arruffone, imbroglione, confusionario, con una situazione privata ingarbugliatissima, apparentemente florida, in realtà carica di debiti». Tre anni prima, nel 1889, mentre Crispi era presidente del Consiglio e Giolitti ministro del Tesoro, la Banca Romana era stata sottoposta a ispezione governativa e gli ispettori avevano contestato, tra l'altro, che Tanlongo aveva fatto stampare clandestinamente 9 milioni di biglietti in tagli da duecento lire per coprire un vuoto di cassa. Quando la banca assicurò che aveva messo ordine nei propri conti e promise di non farlo più il governo, per malintesa carità di patria, decise di archiviare la relazione. Ma negli anni seguenti Tanlongo continuò a stampare biglietti per concedere prestiti e a concedere prestiti per garantirsi impunità. Quando Giolitti divenne presidente del Consiglio nel 1892 la Banca Romana era diventata, con ogni probabilità, una sorta di cassa compiacente per le campagne elettorali dei candidati che erano disposti a difenderne le prerogative. Non basta. Molti erano convinti che fra i garanti dell'impunità di Tanlongo il maggiore fosse re Umberto a cui la banca aveva fatto favori inconfessabili. Nessuno potè mai produrre le prove, ma il seguito della vicenda avvalorò il sospetto. Giolitti sapeva tutto, o quasi; e sapeva soprattutto che il 31 dicembre del 1892 sarebbe scaduta la legge che concedeva alle banche facoltà di emissione. Era convinto della necessità di creare una banca centrale, ma era appena uscito da una difficile crisi politica e non voleva rischiare il proprio futuro con una crociata di esito incerto. Anziché cogliere l'occasione per demolire le banche regionali decise di presentare al Parlamento un progetto di legge che avrebbe prorogato per sei anni il regime anomalo della politica monetaria. Fece purtroppo di peggio: inserì il nome di Tanlongo nella «infornata senatoriale» del 21 novembre. Saldava un conto personale o pagava, in quel mo¬ ni do, i debiti di casa Savoia? Fu in quei giorni che l'Italia improvvisamente cambiò umore e decise di voltare pagina. Mentre Giolitti si preparava a chiedere un voto sulla legge di proroga, era emersa alla luce, dopo una lunga circolazione clandestina, la relazione sull'ispezione del 1889. L'avevano nelle loro mani un economista, Maffeo Pantaleoni, e alcuni parlamentari fra cui un deputato repubblicano, Napoleone Colajanni. A Montecitorio, il 20 dicembre, Giolitti scoprì che il caso della Banca Romana aveva dato origine a un partito trasversale e che la nuova opposizione esigeva un'inchiesta del Parlamento. Se la cavò per il momento riducendo a sei mesi la legge di proroga e promettendo una nuova inchiesta governativa che venne affidata a Gaspare Finali, presidente della Corte dei conti. Ma cominciò da quel giorno il peggiore anno della sua vita. Finali e i suoi collaboratori lavorarono rapidamente. In meno di un mese consegnarono il risultato delle loro indagini a Giolitti che lo dette immediatamente al ministro della Giustizia, il quale lo mise a sua volta nelle mani del procuratore generale presso la Corte d'appello. Il giorno dopo Tanlongo e il cassiere della banca erano in prigione. Il copione dei giorni seguenti presenta inquietanti analogie con quelli di scandali più recenti. Mentre i giudici interrogavano gli imputati, Roma si riempiva di voci e di documenti. Le voci provenivano in buona parte da Tanlongo, che dal carcere mandava segnali, avvertimenti e oscure chiamate di correo; i documenti arrivavano dalle perquisizioni che si fecero nelle case e negli uffici degli inquisiti. La prima vittima dello scandalo fu un deputato, Rocco De Zerbi, di cui si disse che aveva ricevuto dalla Banca Romana la somma di 528 mila lire «per servizi resi»: morì, probabilmente suicida, il 20 febbraio 1893. Un mese dopo Giolitti presentò al Parlamento il rapporto della Commissione Finali e segnalò l'esistenza di un allegato confidenziale in cui erano elencati i nomi di tutte le perso- ne coinvolte nello scandalo. Fu deciso che il documento sarebbe stato esaminato da una commissione parlamentare la quale divenne inevitabilmente, nei mesi seguenti, una sorta di tribunale morale. La sentenza fu emessa a Montecitorio il 24 novembre 1893 e mise in luce una lunga serie di responsabilità individuali. Crispi e Giolitti, rispettivamente presidente del Consiglio e ministro del Tesoro nel 1889, furono accusati di negligenza politica; il secondo, in particolare, di aver sollecitato da Tanlongo un prestito di 60 mila lire. Per evitare un dibattito Giolitti si dimise e passò i mesi seguenti a spiegare sia il prestito (un anticipo al governo per le manifestazioni colombiane, poi rimborsato), sia la negligenza del 1889. Ma quando ebbe la sensazione che Crispi, divenuto presidente del Consiglio, volesse scaricare su di lui la responsabilità dell'intera vicenda, tirò fuori dal cassetto un plico di documenti segreti e lo depositò sul banco della presidenza della Camera. Erano la dimostrazione che Crispi, e soprattutto sua moglie, avevano largamente approfittato della generosità di Tanlongo. Responsabilità individuali La vicenda ebbe altri sviluppi. Per sfuggire al dibattito Crispi prorogò la sessione parlamentare e Giolitti, per.sfuggire a un possibile arresto, sene andò in Germania per qualche mese. Quando tornò continuò a difendersi sia in tribunale, sia a Montecitorio, e se la cavò alla fine meglio di Crispi che dalla Camera dei deputati ricevette alla fine della sua vita una severa censura. Il racconto dello scandalo non sarebbe completo tuttavia se non aggiungessimo che durante il 1893, il peggiore anno della sua vita. Giolitti approfittò della vicenda e del discredito che aveva colpito ormai il sistema «anomalo» della politica monetaria italiana, per far passare la legge n. 449 del 10 agosto 1893 sul «riordino degli Istituti di emissione». La storia di quella legge è stata raccontata da Guglielmo Negri in un libro edito nel 1989 da Laterza: Giolitti e la nascita della Banca d'Italia nel 1893. Esso ci ricorda che se quest'anno abbiamo dovuto ricordare il centenario della morte della Banca Romana, l'anno prossimo potremo ricordare con altri sentimenti il centenario della nascita della Banca d'Italia. La storia contiene una morale. Speriamo che valga anche per gli avvenimenti del 1992. Sergio Romano Caso «anomalo»: anche allora si usò l'espressione craxiana dirMcpdcsnMptldcdszPmldn Final A lato: re Umberto, gran cliente Nel disegno centrale: un momento particolarmente infuocato in Parlamento durante la discussione sulla Banca Romana Sotto da sinistra: Giolitti e Crispi