La leggenda di un «bastian contrario»

La leggenda di un «bastian contrario» Scrittore, polemista, guru, etnologo, lombardoide: con Brera lo sport è diventato letteratura La leggenda di un «bastian contrario» Coltivava rivalità e odii per gli altri big del mestiere Dopo una discussione, prese a pugni Palumbo in tribuna Quarant'anni di Gianni Brera sono sicuramente grossa cosa, per un giornalista sportivo. Ma cosa vuol dire «di Gianni Brera»? Vuol dire quarant'anni e passa impregnati da lui, dal suo personaggio, dalle sue critiche, dai suoi insegnamenti, dalla sua immanenza: si scriveva pensando «chissà come di questo scriverà Brera?», si cercava di leggere Brera il più presto possibile, si andava d'accordo con lui, si pensava e scriveva all'opposto di lui. Si rischiava persino di smarrire la preziosità intimistica dei ricordi spiccioli, di fronte allo spessore del personaggio, che certe volte sollecitava giudizi grossi grossi: scrittore, guru, rompiballe, vate, letterato, etnologo, lombardoide, amico, amico, amico. Tanti giornalisti scrivendo di Brera possono adesso usare una prima persona abbastanza singolare: grazie a lui, che era generoso di se stesso, del più caldo se stesso, con molti, e che ad alcuni riservava addirittura l'ironia, l'insulto bonario: gratificandoli, in un certo senso premiandoli, perché molti cercavano la polemica con lui per illuminare se stessi di luce riflessa. Dicendo che in fondo lui aveva fatto la medesima cosa, lui che ha quasi sempre giocato - ma con la sua classe, e la sua scienza - al grande gioco del bastian contrario. Per quel che mi riguarda, tengo il primo insulto caro come un regalone: quando a Roma 1960 mi chiese di dov'era Berruti fresco d'oro olimpico, Torino risposi con orgoglio per la mia città, le origini voglio ringhiò lui, vercellesi dissi io, sicuramente di uno di quei paesi che finiscono in «engo» e sono di noi longobardi precisò fieramente lui, no di Stroppiana dis- si io, va a dare via i ciapp disse lui. Lo stesso ordine mi trasmise quando gli dissi che forse noi dovevamo pagargli una tangente sui nostri stipendi - come avrebbero dovuto fare gli allenatori con Helenio Herrera - per quanto ci aveva valorizzato la categoria, facendo persino entrare, con la sua vis letteraria, la lettura sportiva nei salotti buoni. Si proclamava d'origine mezza contadina mezza artigiana, Brera veniva dal tedesco e voleva dire «sarto», esaltava la nebbia del Pavese suo e della Milano acquisita, nei migliori circoli parlava un francese impeccabile, conquistato quando era corrispondente da Parigi della Gazzetta dello Sport. Coltivava le rivalità, quasi gli odi canonici per gli altri grandi del mestiere: per Pozzo inteso come citi e come giornalista, per Carlin inteso come giornalista e come etnologo dalla parte sbagliata, per Palumbo inteso come giornalista e come napoletano alla conquista di Milano. Contro Palumbo si scatenò nel nome anche del calcio, lui difensivista l'altro offensivista, e finì a pugni in una tribuna. Tutto, in fondo, serviva a fare sangue, a vitalizzare il lavoro, o almeno il mestiere. Ma fanno ridere adesso i breroidi, che tentano penosamente di scrivere come lui, e che di sport sanno mille volte meno di lui, passato attraverso la scienza cosmica dell'atletica e la malìa paesana del ciclismo, e approdato al calcio, peraltro giocato da ragazzo, con una sorta di snobismo letterale, cioè snob = sine nobilitate. Grande, grandissimo nel sistemare una polemica con un aggettivo, nell'inventare una parola che da sola era un concetto, una tesi, una teoria, una scuola (per tutte: abatini), nello scrivere magari più volte lo stesso articolo, sullo stesso tema, ma sempre meglio. Ma se Gianni leggesse queste righe, userebbe per la terza volta quell'invito di cui sopra. A lui piacerebbe essere ricordato come grande intenditore di vini francesi, come sublime esperto di verza e maiale, come rapido scrittore di vita e perciò anche da trivio (però ispirandosi al divino Gadda), come ex paracadutista e partigiano, come caricaturista perfettamente perfido, come massimo annusatore di nebbie padane, anche come commediografo. E come studioso di razze: proprio il contrario di razzista, diceva, senza essere sempre creduto. Formidabile nel tirar mattina con le bevande e i cibi e i discorsi giusti, e capace poi di pagare quasi sempre il conto per tutti: quando già nella sera e poi nella notte aveva dato molto di se stesso, i ricordi ad esempio, le sentenze loiche che in tanti avremmo usato, le pietre critiche da tirare poi al tempo giusto: ma sempre amando il mondo, i suoi uomini e le sue donne, e come facendo costante¬ mente sua in dialetto lombardo la maledizione di Dostoevskij verso chi sparge buio intorno a sé. D'altronde nei suoi articoli mai scordava di fare fiorire, in maniera ora tenera ora trucida, il senso del paese (e del Pavese...), la memoria di un amico, un fonema villico magari volgare, alla faccia delle sue due lauree, un profumo della vita campestre che si autoaccusava di avere lasciato presto per il giornalismo zingaro o metropolitano, e che cercava di ritrovare mettendo i piedi sotto una tavola promossa a lembo di patria sua. Dilatava la Padania a regione massima del mondo e poi faceva stare tutta la Padania in un piatto di busecca. Arrivava allo stadio e si malediva per quanto era greve d'epa, poi giocava con urla, consigli, insulti la partita, che era come la sua seduta di palestra. Aveva visto tutto, dello sport, e ancora in tribuna puliva gli occhiali per non perdere niente, fra volute di fumo da pipa sempre più grandi e sorsate di whisky sempre più piccole. Gian Paolo Ormezzano Rimpiangeva di aver lasciato troppo presto il suo paese per un lavoro zingaro Una delle ultime immagini di Gianni Brera. A sinistra, lo scrittore Carlo Emilio Gadda a cui amava ispirarsi

Luoghi citati: Milano, Parigi, Roma, Stroppiana, Torino