Io, russo mercenario dei serbi
Io, russo mercenario dei serbi LA STORIA Io, russo mercenario dei serbi QKURGAN UI, nel capoluogo della regione di Oblast, quasi ai confini col Kazakistan, quando comincia l'estate le colline si colorano di un verde speciale. Un verde che quest'anno autorizzava le speranze migliori: per la prima volta, alla licenza trascorsa a casa il sergente maggiore Vsevolod Naidanov, paracadutista, accompagnava la speranza di un po' di quattrini. Mi hanno scelto per una missione all'estero, raccontò al padre, il gestore di una piccola azienda agricola. Mi propongono un lavoro da professionista. Una boccata d'ossigeno per me, incursore russo, che a ventidue anni d'età e dopo quattro di duro addestramento, comincio a sentirmi come una macchina da corsa chiusa in garage. Nulla di troppo rischioso, in realtà: una missione di pace con la «United Nations Protection Force» (più brevemente, «Unprofor») laggiù, nell'ex Jugoslavia. Con un po' di fortuna, uno magari riusciva anche a vedere il mare, ma intanto la paga si sarebbe moltiplicata per cinque. E poi ottimo cibo, sigarette, forse anche qualcuna di quelle ragazze dall'aria così occidentale... L'occasione meritava uno sforzo. Durante la licenza, quel brutto incisivo cariato che rischiava di guastare la vaga somiglianza del sergente con Dolf Lundrgen (quello che a Rocky sibilava «ti spiezzo in due») fu sostituito con un vistoso dente d'oro. Era la fine di luglio, quando «Vlesha» mise piede per la prima volta in un grand hotel occidentale. Poche ore a Zagabria, all'«Intercontinental», ma indimenticabili. E subito dopo, una specie di villeggiatura in Slavonia, settore «E», intorno all'aeroporto di Klisa, con i serbi di fronte e i croati alle spalle, in comodi acquartieramenti e sotto la paterna guida del generale Juri Susedov. Una pacchia: all'inizio, almeno. Erano settecento, gli specialisti russi, e a fronteggiarli c'erano gli ex fratelli serbi. Stesse armi, stessi carri, divise quasi identiche. Molto vicino anche il linguaggio. Troppo vicino, a volte. Anzi identico: come quella volta in cui, durante un pattugliamento nei villaggi ex serbi della zona, da un gruppetto di avversari che stazionava intorno a un «tank», pochi metri più in là, uno gli gridò: dove vai, «durak»? Stronzetto a lui, uno «spetznaz», uno delle truppe speciali, élite dell'esercito russo? Quell'insulto risultava però quasi affettuoso: intanto perché a lanciarlo era un serbo alquanto strano, visto che parlava con accento delle sue stesse parti, e poi per il tono. Un registro di sarcastica superiorità: il modo di parlare di quelli che in Russia si chiamano ancora «afghantzy». Sì, quel finto serbo era stato in Afghanistan, con l'allora poderoso esercito sovietico. E come lui, era composto da veterani ex sovietici un intero reparto schierato lungo la «zona protetta» della Slavonia Orientale. Un reparto di mercenari. Adesso, ricordando quel periodo il sergente Naidanov ha delle pause, e ogni tanto abbassa la voce. Sotto la tenda su cui continua a battere la pioggia, a pochi metri da lui oltre al tenente 'O Flaherty, ufficiale americaGiuseppe Zaccaria I CONTINUA A PAGINA 2 PRIMA COLONNA
Persone citate: Flaherty, Juri Susedov, Vsevolod Naidanov
Luoghi citati: Afghanistan, Jugoslavia, Kazakistan, Russia, Slavonia, Zagabria
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