Fra i ghiacci contro i Mohicani

Fra i ghiacci contro i Mohicani Fame, freddo e prodigi: rivive dai diari una spedizione del 1665 Fra i ghiacci contro i Mohicani Piemontesi e francesi, guerra in DAL Piemonte ai ghiacci del Quebec, a caccia «dei barbari indiani Mohawks», «a gloria di Gesù —J misericordioso», «in nome di Sua altezza cristianissima Re Luigi XIV», «per l'onore delle invitte armi del serenissimo Principe di Garignano». Sono echi di pagine storiche, quasi ignote in Italia, ma che nel Canada francofono studiano da tempo e divulgano. Raccontano un'epopea di «gavette di ghiaccio» di oltre tre secoli fa: quella di 1200 soldati, piemontesi, savoiardi e lorenesi, inviati oltre l'Atlantico per garantire al Re Sole il possesso di quelle terre. E' il 1665. Francia, Olanda e Inghilterra s'affrontano fra i fiumi San Lorenzo e Hudson. Da un anno la colonia olandese di Nuova Amsterdam, fondata nel 1626 sull'isola mohicana di Manhattan, è occupata da truppe inglesi. L'hanno ribattezzata New York, ma l'Olanda la rivendica e la Francia vuole approfittare della contesa. Fortifica apposta i suoi presidi, minacciati dagli indiani Mohawks, alleati di Londra e nemici degli uroni, fedeli ai francesi. Su questo scacchiere, dagli incerti confini politici, fra foreste e ghiacci insidiosi, resi poi famosi da romanzi come L'ultimo dei Mohicani e Passaggio a Nord-Ovest, si scopre ora l'avventurosa marcia degli uomini del reggimento CarignanoSalières, fondato a Torino nel 1644 da Tommaso di Savoia e che il figlio Emanuele Filiberto mette al servizio di Luigi XIV. S'imbarcano il 13 maggio 1665, al porto di La Rochelle. Li comanda un collerico settantenne, Enrico di Castellani, marchese di Salières. Non guida stinchi di santo. Ben lo sanno le donne e i villaggi che hanno attraversato- Spnp militari, di professione, nati da famiglie che nella guerra, civile, piemontese del 1640 hanno perso ogni speranza. Il «Nuovo mondo» dà loro un'occasione: «Combattere i selvaggi Mohawks, alleati degli inglesi scrive Jean Talon, intendente del re -, significa combattere l'Inghilterra e aprire la strada verso floride terre». A ricucire l'ordito dei «diari» della spedizione sono le torinesi, Gabriella Massa e Valeria Dotto. Con il generale Guido Amoretti e l'aiuto dei governi italiano, francese e canadese, allestiranno a primavera una mostra dedicata all'impresa, al Museo del Risorgimento di Torino. Le fonti sono lettere diplomatiche, militari e relazioni dei gesuiti al seguito. Bruno Villata, professore all'Università «Concordia» di Montreal, ha analizzato i nomi di tutti gli uomini di quella spedizione. L'origine sabaudo-piemontese di molti è inequivocabile: dal comandante del reggimento, Enrico di Castellani, località vicina a Savigliano, all'alfiere Giovanni Nicolis di Brandizzo. Fra i comandanti di compagnia ecco il savoiardo Abramo Maximy, il vercellese Piero La Motta, il cuneese Baldassare de la Fredière, un violento, con fama di stupratore. Il cappellano è l'abate Fla- vio di San Ponsò Canavese. Fra i sottufficiali c'è il «primo sergente» Piero Maffè, detto la «Frisa». E nei ranghi tanti Morino, Maletto, Clnrone, Berardi, Martinetti, Piat, Perotti, Grosso, Randino, Olivieri, Bollito, Collino, Audetto, Moretta, Cucco, Sironi, Guerrini, Verna, arruolati in Savoia, Canavese, Pinerolese e Val Chisone. L'età media è di 26 anni. Ma ci sono pure ragazzi come Stefano Carli, detto «Jeunesse». Il re affida la spedizione al luogotenente Alexandre de Proville, marchese di Tracy. Dispone di una flotta di 9 navi. L'ammiraglia è il vascello «Brezé». Le compagnie piemontesi Salières, Maximy, Fredière e La Motta s'imbarcano su «LAigle d'or», da 400 tonnellate, ma «crivellata idai vermi e con la sentina marcia». Talon annota: «Mandano pagliericci. E' nulla a confronto del freddo che troveremo». «La traversata è dura: il vascello Vieux Simeon ha incrociato corsari inglesi». L'«Aigle d'or» scopre «una pericolosa falla». Molti s'ammalano. Solo sull'ammiraglia il nobile Thomais De enarrante vanta «la salute delle truppe e la soddisfazione degli ufficiali». Salières invece è furioso «per il trattamento di bordo». Giunti oltreoceano, risalgono il fiume San Lorenzo. A Quebec li attende una festa. Vi arrivano esausti: Tracy sta male e vomita. Due giorni dopo passa però in rivista le truppe. Lo fanno anche i missionari gesuiti. Il vicario apostolico Francois Lavai parla di «guerra santa» e va a caccia di «eretici protestanti» fra i soldati. gi ve, oni Padre Claude Dablon «pronuncia due potenti sermoni, che fanno pentire gli ugonotti». I pellirosse della missione invece se la ridono. Non hanno mai visto dei cavalli. I gesuiti li scusano: «Sono selvaggi, dicono che sono buffi quegli strani alci, senza corna e per di più così obbedienti». La nòtte del 9 gennaio 1666 si manifestano segni mistici: «Colpi di cannone da sottoterra e una luna sanguigna nel cielo». C'è anche suor Marie de l'Incarnation, fondatrice delle Orsoline. Gioiosa annuncia che «500 soldati hanno indossato lo scapolare della Vergine». Il giorno dopo scatta la prima campagna. «Il signor Daniel de Remy de Courcelle - ricordano le suore -, che respira solo per la guerra, si avventura con 300 uomini e 200 coloni verso i laghi dell'interno, màigrado sia sconsigliato». Ci sono 30 gradi sotto zero. I soldati, costretti a portare a braccia nella foresta anche due cannoni, non sono equipaggiati per quel freddo. Hanno pezze di tela ai piedi e gallette come viveri: «Marcia lenta, gli uomini non riescono a camminare con le racchette da neve». E' neve quasi impalpabile. «Entra nella pelle e gela, mutandosi in lamette che piagano gambe e viso, mentre la tormenta spazza la pista già scavata. Dopo soli 4 chilometri molti hanno già naso, orecchie e dita congelati». Avanzano così per 300 leghe. Il 24 gennaio ecco Fort Saint Louis, «ma è senza i viveri sperati né le guide indiane promesse». Salières deve rientrare a Montreal. Fa l'errore di cedere i suoi uomini al bellicoso Courcellc, che riprende la marcia, anche senza guide. Gli danno del pazzo. Persino «padre Pierre Raffaix lo insulta con parole indegne di un religioso». Ma Courcelle non molla. Vuole raggiungere i villaggi Mohawks. «Dal 14 febbraio siamo in zona nemica, a 20 leghe dai borghi indiani». Passato in canoa il lago Champlain, il 20 febbraio «ecco le tende». «I soldati pazzi per gli stenti non appena le vedono le travolgono. Trovano solo vecchi e bambini: distruggono tutto e macellano due selvaggi». Gli spari richiamano 30 guerrieri Mohawks be¬ ne armati. E' lo scontro atteso. Muoiono 4 indiani, ma anche 11 soldati. E c'è la sorpresa di vedere giungere una pattuglia inglese: «Avete sconfinato nelle terre di Sua Maestà Britannica», avverte il comandante. «Siete troppi, ma se ci occuperete ne patirete le conseguenze». Si preferisce trattare e mangiare. Due giorni dopo arrivano le attese guide indiane. «Ci insegnano a cacciare e fare mocassini». L'8 marzo i resti del reparto rientrano a Fort Saint Louis: Salières li attende, ma vede sfilare solo cento sopravvissuti. L'estate è impiegata per riorganizzare i ranghi e per convincere i Mohawks che ogni intenzione bellicosa se n'è andata con l'inverno. A settembre Jean Talon scrive: «Il tempo è propizio per ripartire, perché le trattative hanno confuso gli indiani». Il giorno 14 l'intero contingente si mette in marcia. Il capitano La Motta va in avanguardia a Fort Saint Hélène. Questa volta hanno pellicce e esperienza. Tre colonne passano il fiume Richelieu e puntano a Sud-Ovest, in territorio nemico. Dopo venti leghe avvistano alcuni villaggi: «Malgrado si tenti una marcia silenziosa gli esploratori Mohawks ci individuano e avvertono il primo villaggio. Quando lo occupiamo troviamo capanne vuote. Vediamo questi barbari solo da lonta¬ no: ululano dalle vette delle colline». Il secondo villaggio è a 15 chilometri. «E' disabitato, ma pieno di viveri che ci rinfrancano». Di nemici non c'è traccia. La foresta tace. Compare allora fra le capanne un'indiana algonkina, schiava dei Mohawks. Prende Courcelle per la manica e lo guida nel bosco, fino a un terzo villaggio «più grande, con i soli anziani della tribù e i resti semicarbonizzati di un paio di prigionieri indigeni». Il 17 ottobre i «villaggi sono dichiarati terra francese». Il reggimento rientra sotto la pioggia. Ha patito poche perdite: il capitano Traversa, ucciso in azione, e otto soldati caduti nel lago Champlain. Fra di loro c'è il piemontese Marco Bottino. Il 5 novembre «la spedizione entra trionfale a Quebec». Ha rafforzato 5 forti. Uno, Fort Chambly, oggi è una città di oltre 50 mila abitanti. Alcuni si gloriano ancora di essere piemontesi. Maurizio Lupo Schermaglie nei villaggi lunghe marce nella neve, segni mistici nel cielo e improvvise conversioni / missionari gesuiti li esortarono alla «guerra santa»: gli indiani erano alleati degli inglesi '•>o ' A fianco, le uniformi dei piemontesi da una ricostruzione d'epoca FIUMI W. •FORT. CHAMBLY TI FRANCO PIEMONTESI ABENAKIS (ET 0N0NDAGAS fl^CAYUGAS' LAGO CHAMPLAIN e MOHAWKS S0K0KIS | MOHICANS NUOVA INGHILTERRA