UN INCIDENTE TRASFORMATO IN DRAMMA di Giorgio Pestelli
UN INCIDENTE TRASFORMATO IN DRAMMA UN INCIDENTE TRASFORMATO IN DRAMMA CHE a teatro ci sia «mille volte più divertimento a fischiare che a battere le mani» lo sapevano anche i piccoli amici del «Minuzzolo» di Collodi; è sempre stato così e non c'è quindi da meravigliarsi, spiace semmai che proprio a questo «Don Carlo» inaugurale il Presidente della Repubblica, cui vengono rivolti accorati appelli a favore della musica in nome della cultura, di cultura ne abbia vista poca, e ancora meno educazione. E' vero che una «prima» non è mai un buon test per uno spettacolo, specie una prima della Scala e meno che mai la super prima di Sant'Ambrogio: troppa la tensione nervosa e l'attesa della sensazione; per cui i protagonisti sono gettati in un agone che amplifica tutto, un neo può diventare una macchia, un incidente locale un dramma nazionale. E si fa anche fatica a parlarne dall'unico punto di vista che conta, quello dell'unità e della visione complessiva dell'opera; mai come in questa occasione un giudizio fondato richiederebbe di tornare allo spettacolo per una replica. Una delle difficoltà del «Don Carlo» è quella di richiedere non meno di sette cantanti di cartello per le parti di Carlo, Filippo, Rodrigo, il Frate, Elisabetta, Eboli, il Grande Inquisitore: tutti hanno pagine determinanti o partecipano in modo decisivo a duetti e pezzi d'assieme. E' strano quindi che uri direttore come Riccardo Muti, che conosce come nesstìno il clima delle prime scaligere, non abbia puntato su una compagnia vocale tarata senza discussioni sulle pretese dell'opera. Con Pavarotti le cose sono andate male, ma potevano anche andare bene: la classe del nostro tenore si è fatta sentire nella prima romanza e in altre pagine. Ma non è in serata o il personaggio di Carlo non gli si adatta (lo diranno le repliche), e nel duetto con Elisabetta evita un acuto derogando su note più basse e la voce gli si appanna proprio sugli appoggi dolci che sono il suo forte («perduto ben, mio sol tesor»); il loggione comincia a rumoreggiare, aumenta il nervosismo, poi arrivano la scivolata durante la sedizione in piazza e gli ormai celebri fischi. Su Elisabetta la regia di Zeffirelli ha fatto un bel lavoro d'introspezione, proponendola come donna cui brucia ancora aver rinunciato al giovane fidanzato, con toni drammatici, quasi popolani; ma all'interprete non è sufficiente la voce di Daniela Dessi, ai limiti dell'intonazione negli acuti e senza fermezza nelle note tese. Luciana D'Intino canta con stile e grazia la Canzone del velo, ma manca della passione necessaria a Eboli; Paolo Coni (Rodrigo) eccellente in teatri come il Comunale di Bologna o la Fenice, nella vastità della Scala resta a distanza ed è costretto a forzare nel duetto con Filippo: che è un finissmo Samuel Ramey, il cantante più in forma della serata, indagatore profondo, per accenti e studiate pause, della complessa psicologia del grande re. Bravi pure Alexander Anisimov e Andrea Silvestrelli (e molto buona la «voce dal cielo» di Nuccia Focile), i quali, come Inquisitore e Frate, assieme a Ramey fanno pendere l'opera verso la parte virile, politica dell'opera a spese di quella lirica; momento bellissimo di raccoglimento il corale dei deputati. Fastosi i costumi di Anna Anni, con cateratte di raso e seta. La scena dell'autodafé, all'apertura ha avuto l'applauso a scena aperta, poi i fischi alla fine, a conferma del clima umorale della serata; Zeffirelli vi ha profuso il suo barocchismo prezioso e stipato, con un padiglione mortuario nel finale che sembrava un gigantesco centro tavola di lusso ( a una mia vicina ricordava il Cremlino). L'arte direttoriale e la musicalità di Muti si sono sentite in tanti particolari squisiti (basti il meraviglioso preludio al secondo Atto, per fortuna eseguito a sipario chiuso); ma sembrava mancare di convinzione nello slancio e nella tensione dell'insieme. Giorgio Pestelli
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