Nelle prigioni di Pellico

Nelle prigioni di Pellico FOGLI DB BLOC-NOTES Nelle prigioni di Pellico Spielberg fortezza al tramonto «UBCEK me l'aveva detto: «Non vada allo Spielberg. E' un luogo orrendo e deludente an Iche per chi cerchi la traccia delle antiche violenze». Orrendo non direi. Del castello-fortezza che aveva turbato le nostre coscienze e scosso i nostri cuori di ragazzi (quasi mai, nei libri di testo, c'erano fotografie del luogo, tutto veniva affidato all'immaginazione o alla lettura delle Mie prigioni, un libro misurato e discreto), non sopravvive quasi più nulla: abbattute da Napoleone le principali mura difensive, otturato da Bonaparte il pozzo del castello, è rimasta in piedi solo una costruzione imponente ma tutt'altro che schiacciante, a due piani, che da trent'anni i cecoslovacchi cercano di abbellire, di addolcire, di modificare. L'idea singolare delle nuove autorità della Moravia per lo Spielberg - che in cèco si chiama «Spilberk» - è di trasformare il tutto in un museo per il tempo libero, in una galleria sovrastante la città, Brno, che è molto più vicina al castello di quanto potessimo immaginare con la scorta congiunta dei libri di storia e di geografia. Qualcosa di simile al forte sabaudo di Priamar, quello di Savona, dove Mazzini inventò la «Giovine Italia» e che oggi ospita le collezioni d'arte raccolte da un grande figlio della città, Sandro Pertini (e donate dalla moglie). Il mio intento principale è di visitare le celle, soprattutto le celle degli italiani (almeno quaranta) che si unirono ad alcune centinaia di polacchi e a piccoli nuclei di ungheresi e di francesi nel periodo della restaurazione romantica. E' un desiderio che non sarà appagato. C'è un obbligo preliminare: prendere visione delle celle criminali, tutte al piano terreno. «C'era una grande differenza ci dice il direttore - fra i delinquenti comuni e i detenuti politici: per i primi il carcere era durissimo, per i secondi solo duro». E traccia una descrizione puntigliosa, analitica, in qualche momento compiaciuta. Entrando nel primo corridoio, o casamatta, si accede a una canalizzazione che si chiama «fogna delle ratte» e dove la tradizione colloca una parte dei detenuti comuni. Il direttore tende a spiegare che non è stato mai vero quello che si legge in molti vecchi libri, che proprio in quel canale fossero collocati alcuni dei prigionieri. L'incertezza rimane grande. Le assicurazioni, quasi ironiche, del funzionario non possono vincere neanche il fascino della leggenda. Di fatto questo canale restaurato in modo perfetto, con perfetta illuminazione e non senza una punta di civetteria, è diventato un elemento di attrazione turistica che trascende la sofferenza di secoli e porta direttamente all'apparecchio che raccoglie le fognature, quasi al termine di una passeggiata; uno strumento che ci viene fatto vedere quasi come oggetto storico e artistico. Usciti dal tunnel delle antiche fognature, si passa dalla parte opposta del piano e si incontrano le celle. Finalmente le celle dei detenuti comuni. Prima una specie di stanza della guardia, popolata da un soldato di legno grande come una perso¬ ntsmectagtbtsdcg na umana con tanti baffi dipinti e un cappello minaccioso e svettante. E poi a breve distanza la prima cella. Quelle dei criminali erano da questa parte. Tutte celle con lettini di quaranta detenuti. Quaranta giacigli l'uno affiancato all'altro, tutti di legno, sembrano autentici fra tante cose incerte e tante attribuzioni fallaci (la testa del detenuto si appoggiava a una specie di scalino di pietra). Dall'altra parte del corridoio altre file di detenuti, con celle diseguali. Fra l'una e l'altra è collocata in un punto una grande stufa. E tutti a domandarci: di quando? I «comforts» dello Spielberg debbono essere tutti recenti. E' pomeriggio già inoltrato, alla metà di novembre. Il giorno precedente sono intervenuto a Bratislava, a nome dell'Italia, alle onoranze funebri per Dubcek: uno slovacco che aveva sempre sognato la Cecoslovacchia ed era stato festeggiato in morte come una specie di capo solitario e improbabile dell'indipendentismo slovacco, già trionfante contro i fratelli boemi e moravi: un'altra conferma del «mondo frantumato». Si avvicina il tramonto. Sollecito la visita alla cella di Pellico e solo quando si avvicina l'ora del congedo il direttore, con molta compunzione e altrettanta cortesia, mi dice che non è possibile entrare in quell'ala dell'edificio per lavori di restauro in corso (lavori che durano da anni). Mi prospetta la possibilità di salire al secondo piano, e sostare nel grande spiazzo dove Pellico e Maroncelli compivano le loro passeggiate diurne (divisi dai delinquenti comuni), rendere omaggio alla finestra esterna. Mi regala altresì una collezione di fotografie: con immagini della parte di museo urbanistico che è sopravvissuto in un altro locale dell'edificio, e anche un «fotomontaggio» della cella di Silvio Pellico. Una cella «ad usum» turistico. I giacigli orrendi descritti nelle Mie prigioni, sia da Pellico sia da Maroncelli, sono elevati a due lettini di legno, arieggiami una baita altoatesina. Nel mezzo del locale un bel tavolo di legno, anche quello sembra fatto da un artigiano della Val Gardena, con un vaso ì i e i o i . o o o di fiori. Sopra il letto di destra un ritratto a colori di Silvio Pellico (una volta faceva parte del museo storico in quella sezione che è stata poi chiusa). Un'immagine quasi riparatoria ed espiatoria. Una riflessione. Quel paesaggio è tutto ravviato e pettinato. La Cecoslovacchia si è preoccupata di dissipare le ombre dell'antico terrore austriaco. C'è una specie di reincarnazione borghese dell'edificio, una sua rivisitazione dall'interno che lo porta ad essere il luogo di passeggiate e di distrazioni. Il luogo dell'incontro dopo le tante lacerazioni di secoli remoti. Prima di entrare nei cortili, quasi affiancato al piano terreno, si intravede la prima lapide che ricorda i patrioti italiani: Da questi «tenebrosi covili» Santificarono col martirio la vittoriosa redenzione italica 1822-1922. La lapide italiana è affiancata a un'altra ungherese e ad una polacca. E' di Paolo Boselli, il presidente degli anni di guerra, il liberale conservatore delle guerre risorgimentali. E ha lo stile accorato dell'Italia liberale nel suo trapasso verso il fascismo. Il quale non mancò di imporre il suo segno anche in questi edifici con un successivo monumento che è conservato nei giardini, fatto in marmo ostentato, con tanto di lapide in latino e un ricordo finale della dedica al Pellico di Vincenzo Gioberti nel Primato morale e civile degli italiani: «Spilbergo non sarà più inferno di vivi né infamia del secolo ma reliquia di martiri e monumento di virtù patrie, cui converranno un dì pellegrine le redente generazioni». Le «redente generazioni», per la verità, conoscono pochissimo le vicende dello Spielberg. Ci fosse, almeno, la televisione. Tornato in Italia riapro le Opere inedite di Silvio Pellico da Saluzzo. E' il volume primo, della fine del 1830, coi caratteri della tipografìa di G. Pomba a Torino. E' dedicato a «Luigi mio fratello»; segna il ritorno dallo Spielberg con una sola annotazione «ne' lunghi dieci anni, in cui niun'altra dolcezza mi restava (dopo la religione, suprema consolatrice, e dopo il compianto d'un carissimo socio di sventura) fuorché l'abitudine d'esercitare, poetando, la mente ed il cuore». Pellico era poverissimo. Confidava nel rispetto dei diritti d'autore, da poco introdotti. Citava l'art. 18 delle Regie Patenti del 28 febbraio 1825. Firmava ogni copia contro le edizioni corsare. Il libro, che comprendeva le sue tragedie dall Ester d'Engaddi in poi, non avrà alcun successo e per anni il reduce delle carceri austriache vivrà negli stenti. Se ne ricordò Luigi Filippo, il re dei francesi, con la prospettiva dell'educazione di un suo figliolo; ma il martire non era in condizione di recarsi a Parigi. Solo quando si aprirà l'abitazione ospitale della marchesa di Barolo, si completerà l'itinerario dell'uomo che aveva incarnato il momento della «borghesia che perdona». Il «languido cadavere ambulante» cominciava, a modo suo, una nuova storia. Giovanni Spadolini Lo Spielberg in un'incisione dell'800