Famiglia massacrata, per uno sgarro di Vincenzo Tessandori

Famiglia massacrata, per uno sgarro Killer solitario uccide un giovane legato al traffico di eroina, poi elimina madre e sorella e ferisce il padre Famiglia massacrata, per uno sgarro Strage a Fano, dietro ci sarebbe l'ombra della droga FANO DAI NOSTRO INVIATO Sulla cancellata in cemento, quattro crisantemi gialli e una rosa rossa, a terra una chiazza bruna; nel campo, al di là della stradetta, lontano una ventina di passi, un altro mazzo di crisantemi e una macchia di calce. Qualcuno ha avuto pietà e ha segnato così i luoghi dove una donna e sua figlia sono state ammazzate con fredda ferocia mentre cercavano di scappare. Ma l'assassino aveva deciso che anche loro dovevano morire perché forse lo avevano riconosciuto. Tanto, farne fuori altre due, a quel punto, non faceva differenza: aveva già sparato e ucciso, nella casa. Una mattanza, tre morti e un ferito che forse non se la caverà: ecco che cosa s'è lasciato dietro il killer. E tutto, forse, ma soltanto forse, per uno sgarro, una partita di coca o «ero» non pagata. Perché, lasciano capire gli inquirenti, se non è la droga il movente di questa strage, allora non c'è movente o, comunque, nessuno l'ha capito. Una famiglia sterminata e subito c'è chi pensa a quanto era successo a Coriano, presso Rimini, tre anni or sono, oppure a Pontevico di Brescia. Ma questa è un'altra storia. Sotto la grandinata di proiettili calibro 7,65 son finiti Adolfo Diotallevi, 24 anni, operaio in una fabbrica di seggiole; sua sorella Ivana, 26; i genitori, Rosa Eusebi, 48, dipendente di un'impresa di pulizie, e Fernando, 54, netturbino. Soltanto l'uomo non è morto: ha il corpo crivellato dai colpi e lotta per sopravvivere al reparto di rianimazione dell'ospedale Umberto I di Ancona. Una famiglia modesta, che conduceva un'esistenza tranquilla, almeno in apparenza. Abitava una casetta a un piano in fondo a via Fanella, che dal centro di Fano porta fino alla A14. E la casa è proprio a ridosso del terrapieno dell'autostrada. Un cancelletto in metallo anodizzato, un corto corridoio, a destra il salotto, con la credenza lucida e il televisore, a sinistra la camera da letto dei «vecchi», poi le camere dei ragazzi e in un'ala, sul retro, la cucina e il bagno. Due soli quadri alle pareti, riproduzioni ordinarie, ritagliate da una rivista. Fernando Diotallevi è un uomo grande e grosso e, una decina d'anni fa, si era mezzo azzuffato con un ingegnere per una questione di confini: niente di grave, ma era andata che gli avevano tolto il porto d'armi e così aveva dovuto rinunciare alla caccia. Ora, il suo lavoro consiste nel tenere puliti i gabinetti pubblici e domenica alle 16 ha salutato i vicini: «Vado a chiudere tutto, non vorrei che qualcuno ci si fermasse». Ogni mattina la moglie andava a far le pulizie in un'agenzia bancaria e spesso l'accompagnava anche la figlia. E proprio Ivana era felice, in questi giorni: a primavera si sarebbe sposata. Lui, il fidanzato, Claudio Celesti, è descritto come un bravo ragazzo impiegato in una bottega di sementi. Ora è convinto di essere il grande sospettato e non apre bocca senza la presenza di un legale. Tutto terribilmente comune, insomma, normale. «Brave persone, brava gente», ripete don Vincenzo Solazzi, il parroco della Santa Famiglia, che per tutto il giorno non è riuscito ad allontanarsi dalla casa dell'orrore. E una «brava persona» per il sacerdote era anche Adolfo. Nessun precedente, infatti, ma mol¬ ti sospetti che in qualche modo fosse entrato nel giro dei balordi e avesse finito per sporcarsi le mani con quelli della droga. Fano, dicono alcuni inquirenti, è un po' un centro di retrovia per il mercato degli stupefacenti che ha vetrine e botteghe soprattutto a Rimini. Ma da qui partirebbero i carichi di cocaina e eroina destinati al Sud e a Roma. Alla prefettura di Pesaro, si dice, erano arrivate alcune «segnalazioni»: Adolfo Diotallevi era indicato come consumatore abituale di spinelli. Ma erano soltanto voci, segnalazioni, nessuna prova e, soprattutto, nessuno aveva avanzato il sospetto che usasse roba strong. La ricostruzione del massacro non è definitiva. Gli inquirenti devono lavorare soprattutto su deduzioni e Gaetano Salvodelli Pedrocchi, procuratore di Pesaro, mormora: «Non ho niente da dire, credetemi, niente». Con quel «niente» e sulle poche testimonianze si cerca di mettere insieme un mosaico che appaia verosimile. Domenica sera Rosa e Fernando Diotallevi erano in casa; Ivana, uscita col fidanzato, era rincasata a mezzanotte; forse Adolfo era rientrato poco dopo. Qualcuno lo aveva visto in un bar, poco dopo l'ora di cena. Ed è possibile che proprio lì abbia incontrato l'assassino. Ma non ha avuto sospetti, non si è accorto che l'altro in tasca aveva una pistola e anche un paio di caricatori, insomma, che era deciso ad accopparlo se non avesse ottenuto spiegazioni soddisfacenti. Forse alla piccola casa accanto all'autostrada sono andati insieme, il ragazzo e il suo boia. Un'altra possibilità, ma considerata meno verosimile, è che il killer abbia parcheggiato l'auto proprio sull'autostrada, abbia scavalcato la bassa rete e abbia bussato al cancello a vetri. In ogni modo il battente dove ora spicca il cartello «abitazione sottoposta a sequestro» non è stato forzato. Nella casa c'è silenzio, Rosa e la figlia sono in cucina: la donna in vestaglia e la ragazza in pigiama, Fernando è già coricato. Adolfo e il suo compagno cominciano una discussione in salotto. Un uomo solo, l'assassino, ritengono gli inquirenti, un ani- male a sangue freddo che avrebbe ascoltato le giustificazioni del giovane e poi, visto che lo «sgarro» non sarebbe stato sistemato, ha estratto la pistola. Forse di quelle col caricatore bifilare che portano quindici colpi. E spara: un proiettile raggiunge il ragazzo alla testa, un altro al torace, un terzo manda in frantumi il video. Ma che cosa si sono appena detti i due? E' possibile che per guadagnar tempo il ragazzo abbia raccontato che i soldi e la roba ce l'aveva sul serio, ma non poteva prenderli perché si trovavano nella cenerà del padre. L'uomo intanto è ^scito, il killer lo vede e fa fuoco. Un colpo dietro l'altro. L'uomo cerca rifugio in camera. Chiude a chiave. Il battente è crivellato e anche Fernando Diotallevi viene raggiunto dai proiettili, nove volte. All'occhio, alla mascella, all'addome e alla coscia sinistra. Forse l'uomo ha sperato di raggiungere il suo fucile, tenuto in un armadio. Ma l'altro lo ha abbattuto. Ora anche le due donne hanno capito. Tentano di fuggire, corrono dietro le spalle dell'assassino e son fuori. Ma quello fa ancora fuoco, forse dopo aver ricaricato l'arma. Ha appena attraversato lo stretto cortile, Rosa, che viene abbattuta da un proiettile alla nuca; la ragazza, invece, arriva fino al campo, e magari pensa di essere già salva. Ma l'assassino la centra alla schiena con due colpi. Gli inquirenti troveranno diciotto bossoli, tutti quegli spari sono uditi da un vicino, Alberico Sanchioni. «Credevo fossero dei ragazzi che facevano scoppiare i petardi». Era mezzanotte e mezzo, precisa. Soltanto alle 7,15 di ieri Umberto Pucci, un infermiere dell'ospedale, di ritorno dal turno di notte, scorge il corpo della ragazza nel campo. «Avverto la famiglia, mi son detto». Ma un attimo dopo vede la donna riversa sotto la cancellata. «Ho avuto paura, son corso a casa». Poi dà l'allarme. Nella speranza di trovare la pistola, ieri i vigili del fuoco hanno svuotato anche un pozzo: «Ma non abbiamo potuto frugare fino in fondo, il collo si restringe e va giù almeno venti metri. Se l'arma è finita lì, trovarla sarà quasi impossibile», dice Sauro Mei, il caposquadra. E intanto s'indaga «in tutte le direzioni». Vincenzo Tessandori A sinistra la casa dei Diotallevi a Fano dove è avvenuta la strage nella quale hanno perso la vita tre componenti della famiglia: la madre e i due figli. A destra i poliziotti allontanano dal luogo del triplice delitto il cadavere di una delle vittime