Rabin a Roma: ecco il nuovo volto di Israele di Igor Man

Rabin a Roma: ecco il nuovo volto di Israele Mentre riprendono a Washington i colloqui bilaterali a cui parteciperanno anche i palestinesi Rabin a Roma: ecco il nuovo volto di Israele // premier parla dei suoi piani di pace per il Medio Oriente personaggio il leader compromesso YITZHAK Rabin a Roma: una visita di routine. Il processo di pace figura, ovviamente, nell'agenda ma Rabin preferisce parlare di scambi, di eventuali joint-ventures. Se già l'Europa è costretta a far da «osservatore muto», figurarsi l'Italia retrocessa in serie B. E tuttavia, poiché la pace in Medio Oriente ci tocca da vicino (ideologicamente, materialmente) è importante per i nostri governanti parlare con Rabin, ascoltarlo. Per cercar di capire se il ritorno dei laboristi al potere ha cambiato l'immagine soltanto di Israele ovvero, e del tutto, la sua politica. Yitzhak Rabin è un sabra che viene da lontano. E' nato a Gerusalemme, i suoi genitori erano emigrati dalla Russia. La vita di Rabin è stata profondamente segnata dall'influenza della madre, una «socialista figlia della rivoluzione russa», donna spartana, dominatrice, idealista. Quindici anni fa Golda Meir così commentò la disfatta elettorale laborista: «Israele ha perduto la sua anima». Io non so se con la vittoria dei laboristi il giugno passato Israele abbia riavuto l'anima ma certamente ha ritrovato un leader. Lui, Yitzhak Rabin. Un leader ricco di sachei. In ebraico antico sachei vuol dire comprensione ma in yiddish la parola ha un si¬ gnificato più completo: il buon senso coniugato con l'intuito. Nel suo Common sense, Thomas Paine scriveva (nel 1776) che un Paese per esser forte e sereno non ha tanto bisogno di eroi quanto di uomini di buon senso. Rabin è un eroe poiché i piani della guerra dei sei giorni si debbono a lui che la diresse in prima persona (Dayan fu, di quella guerra-mito, il testimonial), epperò è un pragmatico alla Dewey. Quand'era ambasciatore a Washington lesse molto per capire gli Stati Uniti ed è probabile che abbia letto The Age ofReason, il libro in cui Payne attacca il lato superstizioso delle religioni e soprattutto l'ingerenza della religione nella politica. Allorché un laico qual è in fatto Shamir incentra la sua politica sul dogma di Eretz Israel affermando che i confini dello Stato d'Israele li ha tracciati la Bibbia, altro non fa che mischiare la religione alla politica. Sicché a ben guardare l'importanza della recente svolta di Israele non risiede tanto nella trionfale vittoria di Rabin, il laborista laico davvero, quanto nella sconfitta di Shamir religioso per calcolo. «Israele ha bisogno di un De Gaulle per fare la pace col nemico. Vale a dire con l'Olp», non fa che ripetere ossessivamente Arafat. Rabin non è un De Gaulle ma non è certamente un sionista alla Jabotinsky. Per i revisionisti l'altro, cioè il palestinese, non esiste mentre il sabra Rabin si identifica con quanto scrisse (nel 1931) quel mezzo Garibaldi e mezzo Cavour che fu Ben Gurion: «Il sionismo tradirebbe sé stesso se negligesse i diritti dei palestinesi arabi» (gli israeliani sono i palestinesi ebrei). Al contrario degli shamiristi che han finito col plagiare sé stessi, Rabin ha il merito ai aver saputo semplificare (non banalizzare, semplificare) i dati della posta in giuoco. Quando, nei comizi, gli chiedevano quanto grande vorresti che fosse Israele, Rabin rispondeva: da Parigi a Nuova Delhi, ma ciò è impossibile. E allora vediamo cos'è possibile. Rabin sa che non potrebbe sgomberare tutti i territori né oggi né domani: significherebbe precipitare Israele in una sorta di libamzzazione biblica poiché i coloni insorgerebbero e si avrebbe una Intifada israeliana. Al tempo stesso Rabin sa che Israele, ora che nessuno mette più in dubbio la legittimità della sua esistenza, può scegliere tra gli «interessi coloniali» e gli «interessi nazionali». La settimana scorsa Rabin ha negato che l'Olp sia un ostacolo per la pace. E con un'ardita analogia storica ha in qualche modo avvicinato l'Olp al sionismo. I «benpensanti» han trasecolato, l'opposizione ha gridato al tradimento. Rabin ha fatto dire d'essere stato interpretato male. Ma i «malpensanti» sostengono che non c'è stato nessun qui prò quo, bensì un piccolo passo, uno dei tanti, destinato a preparare l'opinione pubblica al «grande cambiamento futuro». Alla pace in cambio della terra. Ma fin quando l'Olp rimarrà fuori del salotto buono, i palestinesi-doc non oseranno trattare a 360°. Per non alienarsi il sostegno, più importante di quanto non si creda, della diaspora. Che si identifica nell'Olp. E non potendo trattare con la necessaria flessibilità, raccoglieranno aria fritta. Dando, così, legna al fuoco oltranzista di Hamas. Che potrebbe, alla fine, bruciare i palestinesi: dell'interno della diaspora. E con loro ogni speranza di pace. Per Israele non si tratta di scegliere tra il buono e il cattivo; anche un bimbo sarebbe capace di farlo. Come dice il prof. Harkabi, bisogna scegliere tra il male e il meno peggio. L'Olp, conclude Harkabi, è il meno peggio. Il vero prezzo della pace. Igor Man