NORIMBERGA Tutti gli errori del processo del secolo

NORIMBERGA Tutti gli errori del processo del secolo Ci furono forzature e ipocrisie, ma è servito a cambiare il mondo: uno degli accusatori svela i retroscena NORIMBERGA Tutti gli errori del processo del secolo ]NEW YORK L processo di Norimberga si aprì il 20 novembre del 1945 con un appassionato e vibrante discorso di Robert Jackson, il pubblico accusatore americano. Disse parole memorabili: «I misfatti che noi cerchiamo di condannare e punire sono stati così premeditati, così malvagi, e così devastanti che la civiltà non può tollerare che vengano ignorati perché essa non sopravvivrebbe se crimini simili si ripetessero». Dopo quasi un anno di dibattimento, undici dei ventuno imputati presenti in aula furono condannati a morte e impiccati (con l'eccezione di Hermann Goering che si suicidò con una fialetta di cianuro), sette furono condannati all'ergastolo o a pene detentive minori e tre furono assolti. Da allora, ogni volta che si vuole denunciare una grave ingiustizia internazionale, sia essa la guerra nel Vietnam o le deportazioni in Bosnia, si parla di una nuova Norimberga. Il nome della città tedesca è assurto a simbolo di una condanna emessa a nome dell'umanità intera. E tuttavia non ci sono state altre Norimberga. Il processo del 1945 - o meglio il primo dei processi, voluto e condotto da Stati Uniti, Urss, Gran Bretagna e Francia, i quattro vincitori della seconda guerra mondiale - è rimasto il primo e solo tentativo di istaurare una sorta di sistema penale internazionale per giudicare le guerre d'aggressione ed i crimini contro l'umanità. Perché Norimberga è rimasta un'esperienza unica? Evidentemente perché, in questa fase della storia umana, una simile procedura processuale è realizzabile soltanto dentro lo schema dei rapporti tra vincitori e vinti. Ed ora sappiamo che neppure il processo del 1945 fu allestito agevolmente, tanto che più volte durante la fase preparatoria gli americani furono tentati di rinunciare al patto quadripartito e di condurre un processo da soli, lasciando liberi gli altri Paesi alleati di fare altrettanto. A rivelarci questo ed altri restroscena è Telford Taylor, che fu il sostituto procuratore a Norimberga e che ora, dopo quasi mezzo secolo di meditazione, ha pubblicato un ampio e lucido libro di ricordi intitolato The Anatomy of the Nuremberg Trials (L'anatomia dei processi di Norimberga, edito da Alfred Knopf). L'ex magistrato americano ha 84 anni e vive a New York. Egli rievoca gli eventi del 1945-46 ponendosi tre domande: era davvero necessario il processo? Fu condotto correttamente? Risultò politicamente costruttivo? Sono domande tremende, alle quali giuristi e storici hanno dato risposte controverse e contestate. Quello di Taylor è il giudizio di un protagonista, che conosce la vicenda dall'interno e che ha filtrato le sue idee attraverso il setaccio della storia successi- va, ben sapendo come essa abbia corrotto ed offuscato l'idealismo che animava gli inquisitori americani nel 1945. Alla prima domanda, sulla necessità del processo, Taylor replica con sicurezza: «Non si poteva fare altro». Che un tribunale internazionale fosse il solo ed obbligato strumento per giudicare i maggiori responsabili della guerra nazista è stato riconosciuto perfino da uno degli avvocati tedeschi, Otto Kranzbuehler (il legale dell'ammiraglio Doenitz), il quale ha sostenuto che soltanto un rituale giudiziario poteva «scaricare le tensioni tra vincitori e vinti» e fissare «un doloroso punto di partenza per ricostruire i rapporti tra la Germania ed i Paesi occidentali». Questa esigenza non fu riconosciuta subito con chiarezza durante gli anni della guerra. Taylor ci racconta che Stalin voleva passare per le armi, in maniera sbrigativa, 50 mila ufficiali tedeschi, e che solo in un secondo momento cambiò idea. I contrasti fra i vincitori Churchill si oppose a lungo ed accanitamente alla soluzione processuale, sostenendo che i capi nazisti andavano giustiziati con una sommaria decisione politica, altrimenti il mondo avrebbe detto «che noi abbiamo paura di loro». Furono gli americani ad imporre un tribunale internazionale, nell'illusione - perseguita ossessivamente dal procuratore Jackson - di fissare in tal modo un precedente che avrebbe condizionato per sempre il diritto internazionale ed i rapporti tra i popoli. Fu un processo giusto ed equa- nime? Su questo punto la risposta è complessa. Taylor ammette che il processo violava un principio fondamentale della dottrina penalistica, Nulla poena sine lege, e cioè che una norma penale non può essere applicata retroattivamente. Egli argomenta però che «fattori ambientali preponderanti», come l'invocazione di giustizia che veniva da interi popoli attaccati e massacrati dal nazismo, si imponevano con un imperativo assoluto rispetto ad ogni altra considerazione. L'autore è altrettanto consapevole della debolezza che derivava dalla presenza dell'Urss nel ruolo di accusatore e di giudice. Uno dei capi di accusa contro gli imputati era di aver lanciato una guerra d'aggressione. Ma come si poteva far finta di ignorare che ì'Urss aveva dato un contributo decisivo all'espansione nazista con il patto di spartizione della Polonia e con l'attacco contro la Finlandia? E come si poteva accettare (oggi abbiamo la piena confessione sovietica ma la verità era nota già allora) che il massacro di Katyn, perpetrato dai russi, venisse attribuito ai capi nazisti nell'atto di incriminazione? Qualche dubbio di coerenza nasceva altresì dai massicci bombardamenti anglo-americani sulle città tedesche, premeditatamente diretti contro le popolazioni civili e quindi assimilabili in qualche modo ai crimini di guerra addebitati ai generah' nazisti. Taylor se la cava con una spiegazione troppo formalistica: ((Allora non esistevano convenzioni internazionali sui bombardamenti aerei, che furono proposte solo nel 1977». . Complessivairiente, tuttavia, si può dire che il processo fu corretto. La difesa potè esibire documenti e testimonianze. Il verdetto non era concertato né prestabilito. Ad eccezione del sovietico Nikitchenko, il quale su or¬ dine di Stalin propose di condannare a morte tutti gli imputati, gli altri giudici fecero un onesto sforzo per soppesare le colpe di ciascuno e per dosare il rispettivo castigo. Il francese Henry Donnedieu de Vebres fu il più umano, «un sentimentale» come lo definì l'americano Biddle. Egli votò contro la condanna a morte di Rosemberg e di Frank, pur restando solo. Certo, furono commessi gravi errori procedurali. Uno fu madornale e riguardava i Krupp. Gli inquisitori alleati erano concordi nel mettere alla sbarra, a Norimberga, un rappresentante della grande famiglia industriale che aveva fornito ad Hitler gli armamenti per scatenare la guerra. Ma, al momento di stilare l'elenco degli imputati, scrissero il nome di Gustav Krupp invece del figlio Alfried. Nessuno sapeva, a quanto pare, che Gustav aveva ceduto le redini dell'azienda al figlio nel 1941, in seguito ad una emorragia cerebrale che rendeva impossibile la sua presenza in aula. E così Gustav se la cavò grazie alla malattia ed Alfried grazie alla negligenza degli inquirenti. Quanto alla sentenza finale, Taylor sostiene che la sola grave ingiustizia fu la condanna a morte di Julius Streicher. E' un'opinione tutta personale dell'ex magistrato, fondata sulla tradizione penale americana che prescrive di punire gli atti criminosi, ma non le idee. Streicher era un personaggio minore della gerarchia nazista, salvo per il fatto che aveva diretto «Der Stuermer», il settimanale antisemita che predicava la persecuzione e l'uccisione degli ebrei. Taylor sostiene che Streicher, condannato nel 1940 da un tribunale tedesco agli arresti domiciliari per reati finanziari, era rimasto isolato nella sua casa di campagna e non aveva svolto alcuna parte attiva nella fase esecutiva del Genocidio che pure aveva auspicato. «L'istigazione allo stenninio» che gli fu addebitata a Norimberga non meritava, secondo Taylor, la pena capitale. Un personaggio ripugnante A rendere odioso Streicher, oltre alla sua ossessione antisemita, furono le sue ripugnanti fattezze fisiche, e il suo sprezzante contegno durante il processo. Prima di essere impiccato, Streicher sputò in faccia al boia americano. E arriviamo alla domanda delle domande: è servito a qualcosa il processo di Norimberga? Certo, fu il modello dei molti processi minori che ciascuna delle amministrazioni militari alleate condusse nelle rispettive zone d'occupazione e che la magistratura tedesca a sua volta promosse dopo la nascita della Repubblica Federale. Ma la domanda ha un senso più ampio perché implica un giudizio storico: il mondo ha tratto qualche insegnamento da Norimberga? Conviene ricordare che mentre sovietici, inglesi e francesi miravano soltanto a punire i criminali nazisti, i magistrati americani intendevano porre le fondamenta di quello che oggi chiameremmo un «nuovo ordine mondiale». Fu nel perseguimento di un grandioso quanto illusorio obiettivo che il giudice Jackson fece inserire come primo capo d'accusa contro i 21 imputati di Norimberga l'aver ordito e promosso una «guerra d'aggressione», un crimine a se stante che differisce dagli altri crimini perché «contiene in se stesso tutto il male che si è accumulato nel mondo». Questo apocalittico linguaggio mirava ad introdurre nel diritto internazionale ima dottrina in forza della quale, dopo di allora, qualsiasi guerra di aggressione sarebbe stata considerata «illegale» e suscettibile di sanzione, tant'è che per qualche tempo si parlò di istituire presso le Nazioni Unite una corte permanente per i «crimini contro la pace». Il fatto che questa corte non sia mai nata e che i quattro Paesi che promossero il processo contro i nazisti siano stati, negli anni successivi, a loro volta accusati di aver lanciato guerre offensive e di aver commesso atti di disumanità - in Indocina, a Suez, in Algeria, in Vietnam, in Afghanistan - dimostra che Norimberga, almeno da un punto di vista giuridico, non ha lasciato alcuna eredità. E tuttavia Telford Taylor ha ragione quando sostiene che Norimberga ha comunque stabilito un precedente morale e va considerato come «un successo». Se oggi ogni tanto qualcuno invoca una nuova Norimberga contro qualcun altro, è segno che il mantenimento della pace ed il rispetto dei principi umanitari trovano un forte ancoraggio metaforico nelle deliberazioni quadripartite del 1945, anche se la giurisdizione di Norimberga (per esplicita richiesta dei sovietici) rimase limitata «ai maggiori criminali di guerra delle potenze europee dell'Asse», e dunque non poteva essere estesa né nello spazio né nel tempo. Ma per il futuro Taylor continua ad indicare i supremi principi fissati a Norimberga: «Resto convinto - dice a conclusione del libro - che quelle leggi non si applicano solo ai sospetti criminali delle nazioni sconfitte. Non esiste alcun fondamento morale e giuridico che esenta le nazioni vittoriose dall'essere a loro volta scrutinate. Quelle leggi non sono una strada a senso unico» Gaetano Scardocchia «La pena capitale per Streicher? Fu ingiusta. E ci lasciammo sfuggire i Krupp, industriali della guerra nazista» Joachim von Ribbentrop, ministro degli Esteri nazista: anche lui fu condannato a morte. Sotto, gii industriali Alfried e Gustav Krupp: la confusione fra padre e figlio negli atti del processo permise ad Alfried di farla franca L'aula di Norimberga e, sotto, Hermann Gòring, che sfuggi all'esecuzione capitale suicidandosi con una fiala di cianuro. A sinistra, Julius Streicher