Enel, la sconfitta dell'utopia

Enel, la sconfitta dell'utopia Il 6 dicembre '62 il governo Fanfani istituiva il nuovo Ente per l'energia Enel, la sconfitta dell'utopia E 30 anni dopo l'elettricità toma ai privati USTORIA DELL'ILLUSIONE COLLETTIVISTA UTRIREMMO qualche fiero dubbio sul fatto che oggi, 6 dicembre 1992, sia un giorno da celebrare. Qualcuno pensa addirittura, e con qualche ragione, che sarebbe più opportuno cancellarlo dai libri di storia e lasciarlo nell'oblio per sempre, altro che fanfare. Trent'anni fa, il 6 dicembre 1962, con la legge numero 1643 nasceva l'Ente nazionale per l'energia elettrica, attraverso la nazionalizzazione di oltre 1200 imprese elettriche, soprattutto a capitale privato. La grande svolta di allora, l'Italia a sinistra, l'inizio della modernizzazione di un Paese pastorale e contadino ormai alle soglie del boom si può leggere oggi, per converso, come lo sciagurato prodromo del capitalismo di Stato, dell'economia collettivista e brezneviana, della lottizzazione, della pervasività dei partiti nell'economia. Il dannato tappo che ha compresso un'ipotetica, sana economia di mercato. Il gancio storico di un intero sistema politico-economico, lo stesso di Tangentopoli, l'ultimo al mondo di questa natura, che sarà opera improba smantellare. Capita che proprio nei giorni del suo trentennale, l'Enel si appresti a tornare privato, con un'operazione politico-amministrativa che richiederà degli anni, anche se l'ultimo presidente dell'Enel pubblico, il democristiano Franco Viezzoli, giura che di qui al gennaio del 1994 l'operazione sarà felicemente compiuta, visto che non sarà difficile andare in Borsa per chi già vende obbligazioni che «vanno a ruba». Un anniversario doppio comunque: nascita e morte dell'Enel. Ma se voghamo non solo smitizzare il trentennale, se voghamo farne la boa di negatività che crediamo sia, occorre un'avvertenza. La affidiamo alle parole di Guido Carli, non certo un rivoluzionario, anzi un conservatore forse illuminato, che alla nazionalizzazione partecipò attivamente ma criticamente, forse assai più criticamente di quanto si sia mai saputo. «A guardare le cose retrospettivamente - ha detto l'ex governatore della Banca d'Italia a Eugenio Scalfari, che nel 1960 fu l'organizzatore di un famoso convegno degli «Amici del Mondo» contro il trust elettrico privato - si potrebbe addirittura concludere che l'ingegner Valerio fu un "agente segreto" della nazionalizzazione, tanti furono gli errori di comportamento che la Edison e le altre compagnie elettriche private riuscirono a compiere, fino a rendere probabilmente la nazionalizzazione inevitabile. Tuttavia, non c'è dubbio che quella decisione dette un colpo decisivo alla struttura finanziaria della nostra economia e una spinta formidabile a quel tipo di capitalismo assistenziale che negli anni successivi ebbe uno sviluppo nefasto. La crescita d'una pianta parassitaria che ha tolto aria, spazio e luce a quelle sane e produttive». Ma se Piccardo Lombardi, Pietro Nenni, Ugo La Malfa, Antonio Giolitti e altri pionieri coltivarono un'utopia fallace, la ebbero servita su un piatto d'argento dall'insi- piente borghesia imprenditoriale di cui questo Paese disponeva. Carli, che dà l'impressione di amare il suo tradizionale doppio ruolo di dottor Jekyll e mister Hyde, non nega più neanche che gli indennizzi per quasi 2500 miliardi che lui si batté perché andassero agli imprenditori elettrici e non ai singoli azionisti come voleva Riccardo Lombardi, non servirono affatto a dare un nuovo impulso a investimenti in altri settori industriali, ma furono dispersi stupidamente, segnando il più grave fallimento nella storia della classe imprenditoriale italiana. Contrariamente a quel che era avvenuto saggiamente cinquantanni prima, quando gli indennizzi derivanti dalla nazionalizzazione delle ferrovie furono investiti proprio nello sviluppo dell'industria elettrica. Tutto era cominciato il 21 febbraio 1962, con la formazione del primo governo di centrosinistra, presieduto da Amintore Fanfani. La Malfa era ministro del Bilancio e il psi di Nenni aveva concesso la sua astensione - badate bene - in cambio della «rottura degli equilibri capitalistici», la «transizione verso il socialismo» e le «riforme di struttura» per la «conquista del potere da parte delle classi escluse». Capite qual era il programma del primo pallido centrosinistra? Una somma di proponimenti vetero-marxisti che forse avrebbero fatto sorridere, se non inorridire, perfino Krusciov. E la liquidazione dei vecchi gruppi elettrici, tradizionalmente e giustamente identificati con la destra politica, aveva per la sinistra il più alto valore simbolico. Si usciva dalla tragica esperienza del governo Tambroni, con l'appoggio dei neofascisti e con i morti in piazza. Le «baronie elettriche» erano l'obiettivo da colpire per dare la sensazione del vero cambiamento. La cosa che più impressiona a rileggerla a trent'anni di distanza è che anche Ugo La Malfa, sicuramente non succube della cultura marxista allora dominante, accettava supinamente tutto questo bell'armamentario marxista. Parlava di pianificazione, come in quegli anni si faceva a Mosca con risultati miserabili, e tollerava che il governo di cui faceva parte avesse come obiettivo la transizione verso il socialismo. Pensate un po' quanto dovesse essere ottusa la cosiddetta borghesia imprenditoriale, titolare del monopolio elettrico, per essere odiata anche da fior di liberali. L'unico un po' stordito dalia retoricità delle affermazioni della nuova squadra governativa, mentre Fanfani si baloccava con le teorie sociali eusebiane, era Ernesto Rossi, il vecchio liberale. «Ma mi volete spiegare - implorava che cosa sono queste riforme di struttura? Le riforme sono riforme e basta». Ma Riccardo Lombardi non demordeva e Pietro Nenni, stranito, annotava: «Carli, purtroppo, è il solo ad avere una visione d'insieme». Povero Nenni, era quasi nella stanza dei bottoni, ma non aveva la minima idea di come si spingesse un bottone. Che successe dunque trent'anni fa? Come potè accadere che belle anime liberali impiantassero il Moloch consociativo, come si dice, o, se volete, collettivista, che ha condotto l'Italia alla presente disgrazia? Quando lo abbiamo chiesto ad Antonio Giolitti, ex comunista, ministro della Programmazione nei primi governi di centrosinistra, ci ha risposto così: «Avevamo un vizio ideologico grave. Pensavamo di trasformare il capitalismo per arrivare a una forma di socialismo che non era quello sovietico. Ma non avevamo un modello, navigavamo nell'ambiguità. Era un'utopia equivoca della quale né io né La Malfa ci rendevamo contp». Ma... Ma, come dice Carli, quei baroni elettrici erano troppo imbecilli per sopportarli ancora. Oltre al valore simbolico, la nazionalizzazione aveva un valore intrinseco: le industrie elettriche facevano schifo in tutti i sensi. Non solo finanziavano i neofascisti, ma non sapevano neanche fare il loro mestiere. Ecco come un veterocapitalismo ottuso può scatenare un consociativismo perverso. Anche se un marxista sinceramente pentito come Antonio Giolitti si dice convinto che il capitalismo assistenziale, l'infezione che ha bruciato tutto il sistema politico di questo Paese, non deriva tanto dalla nazionalizzazione dell'energia elettrica in sé, ma dall'uso perverso che ne han fatto i partiti. Non ha torto. Il vero anniversario non è quello del 6 dicembre, data della legge di nazionalizzazione. Il vero anniversario cadrà il prossimo 9 febbraio, quando, trent'anni fa, l'avvocato Vitantonio Di Cagno, già sindaco democristiano di Bari e nemico giurato della nazionalizzazione, fu nominato presidente dell'Enel. Come suo vice fu designato Luigi Grassini, responsabile dell'ufficio legislativo del gruppo socialista della Camera. Non c'era proprio niente di meglio che un portaborse barese di Aldo Moro e di un piccolo funzionario di partito? Certo che c'era. Lombardi e Giolitti avevano proposto Felice Ippolito, ma in realtà puntavano sull'ex governatore della Banca d'Italia Donato Menichella. Fu proprio Moro a non volerne sapere e a imporre la sua piccola scelta clientelare dell'avvocato barese, nemico giurato della nazionalizzazione. Il tripudio delle «convergenze parallele»? Da allora alla guida dell'Enel si sono alternati portaborse di varia natura e il grande palazzo di vetro nel cuore dei Parioli si è segnalato come uno dei luoghi meno commendevoli d'Italia. Tanto che uno dei pochi politici finiti per un lungo periodo in galera è stato Pietro Longo, ex segretario socialdemocratico, arrestato e detenuto per le tangenti riscosse quando, poco più che giovinetto, era consigliere d'amministrazione dell'Enel. Sì, perché in quel palazzo di piazza Verdi, con consiglieri d'amministrazione quasi amministratori delegati di settore designati dai partiti, s'è istituzionalizzata più di vent'anni fa Tangentopoli. Quante centinaia di miliardi di tangenti ai partiti e a singoli politici son passati in un trentennio da piazza Verdi? Quante gratifiche? Quante mance? Non lo sapremo mai. Perché poi la storia cancella le tracce, specie quelle di nefandezze compiute per «nobili scopi», per la democrazia. Adesso in quel palazzo governa un ex potente, uno degli «alani» dell'ex superpotente presidente dell'Ili Giuseppe Petrilli. Ma è un'altra storia. Il dottor Viezzoli, l'alano di Petrilli, è ormai un signore più che ragionevole alla vigilia della pensione, che se rilegge insieme con noi tutta la storia del trentennio rabbrividisce. Persino per lui privatizzare necesse. Alberto Staterà Carli: «Con la nazionali22azione si creò una pianta parassitaria» Giolitti: «Non c'era un modello ; navigavamo nell'ambiguità» Ugo La Malfa (a sinistra) leader del pri e ministro del Bilancio nel governo Fanfani Antonio Giolitti (a destra) socialista ed ex pei ministro della Programmazione nei primi governi di centro-sinistra ; A sinistra Guido Carli che è stato per molti anni governatore della Banca d'Italia

Luoghi citati: Bari, Italia, Mosca