«Ucciso dalla fuga di notizie» di Francesco Grignetti

«Ucciso dalla fuga di notizie» «Ucciso dalla fuga di notizie» Ayala: era sicuro che sarebbe uscito vincitore INTERVISTA L'AMICO IN TRINCEA ROMA. «Minchiate, sono. Tutte minchiate. Neanche conosco quali sono le accuse, né che cosa ha detto Mutolo al giudice. Nessuno mi ha avvertito. E un cornuto dice tutto alla stampa. Ma stai tranquillo: io le smonto subito, le accuse». Così parlava il giudice Domenico Signorino a Giuseppe Ayala, palermitano, deputato repubblicano, collega di tanti anni, e pubblico ministero in tandem al maxi-processo. I due forse non erano amici fraterni, ma si conoscevano bene. «Era un bel rapporto umano, il nostro». L'ultima telefonata risale all'altro giorno, subito dopo l'esplodere dello scandalo. Racconta un Ayala addolorato, visibilmente commosso, incupito, che non riesce a sedersi un attimo: «Mi aveva cercato lui. Io ero in Liguria e non mi ha trovato. Me l'ha detto in serata la segretaria. Sui giornali erano appena uscite le accuse contro di lui. L'ho chiamato a Palermo e finalmente ci siamo trovati. Era molto scosso». I misteri di Palermo continuano a perseguitare Ayala. La mafia. I veleni di palazzo di giustizia. Poi le stragi di Capaci e di via D'Amelio. Adesso il suicidio di Signorino. «Troppa morte. E ora questa tragedia», dice mentre porta la mano destra agli occhi, come per scacciare gli incubi siciliani. «Noi eravamo il pool antimafia. E adesso? Due sono morti, Falcone e Borsellino. Uno si è suicidato. A me mi hanno cacciato da Palermo. Di Pisa è stato condannato come Corvo. Geraci è finito così... criminalizzato da me e anche da Caponnetto. Chi resta? Guarnotta e Di Lello, che se ne vogliono andare. Io non credo che ci sia un grande complotto che ci ha ridotti così. No. Però questi sono fatti». Che vuol dire, on. Ayala? Che voi avevate rotto un equilibrio? Che avevate toccato i poteri neri di Palermo e per questo vi hanno fermato, in una maniera o nell'altra? «Toccati i poteri... Questo è sicuro. Mi hanno dichiarato incompatibile con Palermo. A me, che non posso girare per la città senza che mi tirino la giacca per stringermi la mano». Della sfera privata, e della sua amicizia con Signorino, però, il deputato repubblicano non vuole parlare. Taglia corto: «Ricordi umani? Tanti. Avevamo un rapporto lealissimo, sia dal punto di vista personale, sia professionale. Non ci vedevamo molto, al di fuori del lavoro. Però c'era una grande lealtà tra di noi». Torna sulla telefonata dell'altro giorno: «La cosa che più lo aveva colpito - racconta Ayala - era di trovare il suo nome sulla prima pagina di un giornale, senza sapere neppure che si indagava su di lui. Comunque mi sembrava tranquillo. Avevamo deciso di incontrarci a Palermo nel fine settimana. "Ti racconterò", mi ha detto». E di questo Mutolo che lo accusa, che cosa le aveva detto? «Sapeva che il pentito aveva raccontato fatti e cose, ma non aveva idea. "Certe accuse sono gravi, vedrò di sapere". Erano fatti vecchi di quindici anni fa. 10 all'epoca non ci lavoravo assieme. Non so. Tutto può essere. Ma non ho mai avuto sospetti di una sua contiguità con la mafia». E invece il giudice Signorino non ha retto alla tensione. Lei che ne pensa? «Un noto sostituto procuratore generale, che non riceve alcuna informazione di garanzia, non può aprire 11 giornale la mattina e scoprire di essere accusato da un pentito». Se la prende con la stampa, l'ex magistrato siciliano: «E' innegabile che ci sia stata una grave fuga di notizie. Ma questo non autorizza a diffonderla e pubblicarla con tanta leggerezza. Sì, ci vuole un ripensamento sul ruolo della stampa». Pausa. Ayala riprende a camminare nervosamente nel Transatlantico. Incontra certi deputati siciliani, che gli chiedono notizie. Lui ripete la storia della telefonata. «Io non voglio accusare nessuno - ri¬ prende - sono talmente sotto botta che non mi sento in condizioni di connettere». Ma si deve forse riaprire la questione dei pentiti? «No, l'uso dei pentiti è essenziale. Tappare loro la bocca sarebbe una follia. Semmai il problema è la gestione dei pentiti, che dev'essere "civile". E la stampa dovrebbe imparare a toccare certe questioni delicate con maggior senso di responsabilità». Incontra il deputato pidiessino Giovanni Correnti, collega della giunta per le autorizza zioni a procedere. Correnti gli dice: «Quando il pentito non serve per avviare un'indagine, ma per affermnare una colpe volezza, lo Stato di diritto ne esce massacrato». Ayala an nuisce. Poi scappavia, inseguito da una torma di giornalisti e cameraman che gli chiedono commenti. «No, basta. Vi pre go, non ne voglio più parlare». Francesco Grignetti Giuseppe Ayala (a sinistra) e Domenico Signorino erano stati pm assieme al maxiprocesso

Luoghi citati: Capaci, Liguria, Palermo, Roma