«Noi, guardie coraggio dimenticate»

«Noi, guardie coraggio dimenticate» Da Alcamo a un luogo segreto: «Siamo senza lavoro e ci credono delinquenti» «Noi, guardie coraggio dimenticate» Sventarono attentato, ora vivono un incubo IL CASO LE PRIGIONI DI 2 VIGILANTESANTIMAFIA ANTONIO Vilei e Santino Melia sono nati ad Alcamo, in Sicilia, ma abitano da un anno in un paese del Nord Italia che non possono rivelare. Hanno in affitto due appartamenti arredati, in una zona periferica spesso avvolta nella nebbia. E nella nebbia hanno avvolto le loro vite: non c'è il loro nome sul campanello, né alcuno dei vicini lo conosce. Non lavorano, eppure ricevono ogni mese un assegno con cui mantenere se stessi e le famiglie lontane. I vicini sospettano che siano due «poco di buono», con rendite provenienti da affari loschi. La verità è un'altra, ma loro non la possono raccontare a nessuno perché se lo facessero rischierebbero la vita. E così se la ripetono tra di loro, nelle interminabili sere di un forzato esilio, figlio di quello che chiamano «un maledetto atto di coraggio che ha prodotto solo sventure». La verità che si raccontano comincia la mattina del 17 aprile del 1991. C'è mercato nella piazza di Alcamo, città falcidiata da una storica faida di mafia che ha fatto decine di vittime. Vilei, guardia giurata, è di servizio davanti alla filiale del Banco di Sicilia. Il suo collega Melia, di riposo, passa a salutarlo. Stanno prendendo un caffè nel bar della piazza quando vedono una motoci- eletta con due persone a bordo affiancare un'automobile. Uno dei due centauri estrae la pistola e fa fuoco, ma colpisce il bersaglio solo di striscio. Sta per sparare di nuovo, quando intervengono i due vigilantes. Melia insegue quello che ha sparato, Vilei blocca il conducente della moto. L'uomo che volevano uccidere si salva, grazie a loro. Due killer della mafia di Alcamo finiscono in carcere, riconosciu¬ ti da loro davanti al giudice Taurisano che conduce l'inchiesta sul tentativo di omicidio. Comincia l'incubo per le due guardie giurate: minacce verbali e telefoniche, la casa di Melia incendiata. A dicembre il magistrato dice alle due guardie giurate: «Dovete lasciare Alcamo, trasferirvi al Nord, lo Stato vi proteggerà, vi darà soldi e un lavoro, le famiglie vi seguiranno, ma intanto partite voi, subito». E' passato un anno. Antonio Vilei telefona da una località segreta. Vuole lanciare un appello attraverso la stampa e ricordare all'alto commissariato antimafia che lui e il suo collega aspettano che una promessa di vecchia data sia mantenuta. La voce tradisce stanchezza e delusione. Racconta una vita da prigioniero, lui che era una guardia. «Siamo stati dimenticati - dice -. Ci avevano promesso un lavoro come poliziotti o carabinieri, ma non l'abbiamo avuto né abbiamo speranze di ottenerlo presto. Le nostre famiglie sono rimaste ad Alcamo. Mia moglie è malata e non può seguirmi in questa seconda vita piena di difficoltà. Ho tre figli, di venti, sedici e dieci anni. L'ultimo sta crescendo senza il padre. Sono rientrato pochissime volte al paese, per motivi di sicurezza. Ma neppure qui ci sentiamo sicuri. Se ho bisogno di un medico, che nome gli do per non uscire dall'incognito? Non possiamo frequentare nessuno, non possiamo avere amici, perché dovremmo mentire con loro. Viviamo da reclusi, o io vado da Melia o lui viene da me. Fine delle nostre giornate. Abbiamo chiesto colloqui con i vertici dell'Antimafia perché ci trovino un'occupazione e possiamo finalmente avere una nuova vita con le nostre famiglie. Non ci hanno risposto. Non abbiamo più fiducia». Antonio Vilei e Santino Melia parlano spesso anche del processo per i sicari della mafia che hanno fermato e riconosciuto. Non è ancora stato celebrato, e sono passati venti mesi. Quanti altri passeranno? Loro non lo sanno, ma nelle lunghe e vuote giornate del loro esilio coraggioso hanno preso una decisione: «Non ci andremo - dice Vilei -. Se prima il ministro della Giustizia o il capo della superprocura non ci ricevono non andremo a testimoniare. Non siamo pentiti del nostro gesto di coraggio. Lo rifaremo. Ma lo Stato, che non c'era quel giorno e ancora non c'è oggi ad Alcamo, deve essere almeno a fianco di chi ha rischiato per lui. Non vogliamo rischiare ancora». Gabriele Romagnoli «Viviamo da reclusi con le famiglie lontane e disperate Se lo Stato tacerà non andremo a testimoniare» Una veduta di Alcamo, città dilaniata da una faida di mafia, il 17 aprile del 1991 due vigilantes sventarono un attentato, da un anno vivono nella clandestinità, lontani da casa

Luoghi citati: Alcamo, Nord Italia, Sicilia