Romiti: «Io, l'Avvocato e la Fiat»

Romiti: «Io, l'Avvocato e la Fiat» L'INDUSTRIA E IL PAESE L'amministratore delegato dell'azienda torinese parla della crisi economica e delle riforme Romiti: «Io, l'Avvocato e la Fiat» L'Italia può farcela, basta con l'occupazione dello Stato TORINO. L'avvocato Agnelli ha annunciato che nel 1994 lascerà la presidenza della Fiat. E lei, dottor Romiti, cosa farà? «Le dico, in tutta sincerità: l'Avvocato mi ha chiesto, e non da adesso, di rimanere al suo fianco. Ed io rimarrò con lui». Cesare Romiti non ha dubbi. Gli avevo posto la domanda un po' a freddo, subito dopo i saluti, appena seduti in questo salotto con vista sul Po che affaccia su una terrazza decadente oltre la quale le ramaglie autunnali si confondono nella bruma gelida. Villa Cairoli è una palazzina che la Fiat usa come foresteria per ospiti illustri e briefing di riguardo, opera di un benestante di fine secolo non privo di mezzi né di gusto, che volle costruirsi questo civile monumento ad onore del suo stesso benessere. Ha infatti il tono, lo sfarzo, qualcosa di allegramente parvenu che mostra l'impronta della borghesia consolidata, più che le struggenti eleganze della maison patrizia. E infatti è una casa borghese. E tutto ciò che rappresenta e contiene ha a che fare con la borghesia. 0 meglio: con la classe degli operosi, di tutti coloro che fabbricano ricchezza, producono idee che diventano cose e cose che provocano idee. Romiti è un rappresentante totale di questa classe. Viene dalla piccola borghesia di Stato romana (un padre funzionario alle Poste, scomparso ancora giovane), ha vissuto una adolescenza di giardini cittadini, di allegra povertà, di studi duri e di divertimenti a buon mercato. Il buon mercato è-il-sue -ideàf e, ma nel senso che il «buon mercato» è quello in cui l'uomo non diventa merce, né si appiattisce sulla merce, ma la produce, ne è gèdotto, la rinnova, la trasforma in strumento per vivere meglio e dedicarsi sempre più al rispetto dell'uomo: visioni che sembrano agli antipodi di certe fondamenta pauperistiche sia del cristianesimo che del socialismo. Perché questo impegno personale con l'Avvocato? «Glielo spiego volentieri: è con l'avvocato Agnelli che ho trascorso il periodo di lavoro più lungo e armonico della mia vita. Si è trattato di una stagione fortunata e io mi considero fortunatissimo». Che tipo di relazione c'è fra voi due, il dottore e l'Avvocato? «E' abbastanza semplice. L'Avvocato è sempre stato fedele a un suo principio che ha reso perfetta la nostra intesa. E il suo principio è questo: come rappresentante dell'azionariato di controllo, l'avvocato Agnelli usa concordare con il capo dell'esecutivo le direttive generali senza interferire nella gestione dell'azienda. Questa è una grande garanzia, perché l'azionista è una figura permanente, mentre quella del manager non lo è. Il capo dell'esecutivo deve essere sostituibile se e quando il rapporto fiduciario viene a cadere, ma proprio perché possa mantenere intatta e funzionale questa sua prerogativa è bene che l'azionista si mantenga distinto. Altrimenti il risultato è un pasticcio». Quindi lei considera il vostro rapporto come canonico ed esemplare. «Esemplare sì. Canonico non so dire, nel senso che di mezzo c'è il fattore umano e quindi l'affinità umana, mancando la quale non ci sarebbe stata quella simbiosi perfetta che mi ha consentito di dare al meglio il mio meglio». Siete soltanto un'arfiatata coppia di lavoro o siete an che amici? «Sa, è curioso. La parola amicizia non viene davvero mai prò nunciata. Certamente l'Avvoca to non va in giro dicendo che Ro miti è un suo amico, e neanch'io lo faccio. Però credo proprio che si possa parlare di autentica amicizia, di una qualità piutto sto rara». Perché? «Perché il nostro codice è fonda to sul rispetto, sulla riservatezza. Pronunciando queste parole in un certo senso sto manomet tendo questo codice, ma lo faccio soltanto perché per me questo comincia ad essere il momento un po dei primi bilanci». Lei da quasi un anno non concedeva interviste e il suo silenzio faceva strepito. «E' vero. Preferisco il silenzio. Ma quando vedo una situazione molto difficile, molto critica, mi sembrerebbe sleale stare zitto. L'ultima volta fu nel settembre dello scorso anno a Villa d'Este». Quando lei bocciò senza misericordia il governo Andreotti. «Dissi che se un governo non riesce a raddrizzare l'economia, colpire la criminalità organizzata e far fronte ai suo^ impegni 4§VPJdiniettgrsi. \\ paese seguitava ad affondare, e intanto si sentivano questi politici sostenere che non era ancora il caso di fare qualcosa di energico perché tanto, poi, col tempo "tutto s'aggiusta". E infatti! L'abbiamo visto come si è aggiustato bene». Disse di più: disse che il Paese aveva bisogno di un trauma. «Quello che io auspicavo era uno scuotimento, un segnale forte che suscitasse quello stato di shock che può riportare un po' di vita. In realtà poi di traumi piccoli e grandi ne abbiamo avuti fin troppi: dai risultati del 5 aprile alle vicende giudiziarie milanesi, dalla questione morale allo stato di grave delegittimazione dei partiti e persino una svalutazione della lira... Fatti che dovrebbero imporre decisioni appropriate, serie, rapide». Bè, non si parla d'altro che di riforme che garantiscano stabilita di governo, i partiti intanto discutono, si lacerano... «Mah, io sono impressionato, piuttosto, dal chiacchiericcio piegato alle esigenze dello show televisivo». Un esempio? «Per esempio, e con tutto il rispetto che ho per Maurizio Costanzo, io soffro vedendo il ministro di Grazia e Giustizia che discute con il procuratore capo della Repubblica di Milano di problemi gravi e drammatici, stando sul proscenio del Teatro Parioli. Oppure vedendo ministri che polemizzano vociando e urlando: non mi piace vedere lo Stato esibito in passerella fra una ballerina, un comico e uno stacco pubblicitario». La comunicazione è televisione, con le sue regole. Ma lei non la ama molto, vero? «La vedo poco. Però non è esaltante. Se lei passa di fronte a un televisore acceso, vede una di queste tre cose: un assassinio, un amplesso, o un tizio che tratta argomenti di terribile attualità con gli stessi criteri dell'avanspettacolo. Del resto il chiacchiericcio è generale: gli industriali fanno i giornalisti, i giornalisti i politici, e i politici fanno gli industriali. Qui mi sembrano davvero poche le persone responsabili e consapevoli della gravità della situazione». E' una critica, la sua, nei confronti del governo? «Certamente non del presidente Amato, uno dei pochi che capisca come stanno le cose, e che «Sde del resto sta lavorando in un modo eccellente». E secondo lei quale sarebbe la scala delle priorità per fronteggiare la crisi? «Secondo me al primo posto non vengono soltanto le riforme elettorali o istituzionali, ma anche le privatizzazioni: si deve mettere fine al più presto all'occupazione dei partiti nelle aziende pubbliche, se si vuole risanare il Paese. Cosa che secondo me si può fare soltanto privatizzando e dando vita a un mercato in grado di offHFe ai risparmiatori dei beni vivi e concreti. In modo tale che la gente sia finalmente tentata di" comperare parti tu\fàT>briche, edifici, aziende e la smetta di acquistare voluttuosamente fette di debito dello Stato, dosi di malattia». Il presidente Amato sembra procedere decisamente verso le privatizzazioni. «Sì, ma ha contro alcuni dei suoi stessi ministri, una parte del Parlamento e i vertici di quasi tutti i partiti, per non dire dei sindacati e di molti capi delle aziende da privatizzare. Sarà una battaglia durissima e secondo me è qui che si gioca davvero il futuro del Paese. E' su questa questione che il Paese avrà, o non avrà, il giro di boa che tutti ci aspettiamo. Sa, le riforme sono fatti importanti, non chiacchiere. E io ho molta paura che tutto questo preteso "nuovismo" alla fine si esaurisca nel chiacchiericcio». Lei sembra animato da un sordo rancore verso l'industria di Stato. E' così? «No, semmai nei confronti dei partiti che si sono impadroniti delle aziende di Stato. Un giorno mi è capitato di sentire un uomo politico importante, che tuttavia non era al governo, porsi questo illuminante quesito: "E perché io dovrei vendermi le partecipazioni statali?" Ecco: in quel "dovrei vendermi" c'era tutto l'abuso, l'appropriazione indebita di cui dicevo prima». Lei ha vissuto un'esperienza diretta di aziende di Stato, prima di entrare alla Fiat nel 1974. Come si comportavano vent'anni fa i politici in questo settore? «Fu proprio in quegli anni che cominciò l'occupazione e io ne vidi qualche avvisaglia dall'Alitalia, dove ero entrato come amministratore delegato, su invito di Enrico Cuccia. Cuccia è considerato un campione puro e quasi fanatico dell'industria privata, e invece fu proprio lui a farmi riflettere sul piacere di servire lo Stato. Così andai e mi misi a lavorare. Un giorno mi telefonò un sottosegretario alle Partecipazioni statali il quale senza tanti complimenti mi convocò nel suo ufficio il giorno successivo. Io gh risposi che non potevo, sarei andato appena avessi avuto un mo¬ mento di tempo. Quasi mi sbatté il telefono in faccia. Quando poi ci trovammo di fronte mi fece una scenata: si mise a gridare che quando un1 sottosegretario convoca un manager delle aziende di Stato, quello deve scattare...». Elei? «Mi sentii fremereìtìallo sdegno. Gli dissi che non prendevo ordini da nessuno, che'èro lì soltanto per cortesia, che'ine ne sarei andato sui due piedi se non avesse cambiato tono...'ùria litigata.che non finiva mai. Tenni U punto, ma il presidente 'dell'Ili Petrilli e il direttore Medugho mi chiamarono allarmati: ma come, lei ha risposto così? Certo: e come dovevo rispondere? Tra l'altro questo sottosegretario da me altro non voleva che un favore personale, un'assunzione. Da questo episodio e da altri simili capii che l'occupazione di partiti e correnti nell'indùstria statale procedeva a tappe forzate. Era arrivato il momento di tornare nell'industria privata». Come manager della Fiat le è più capitato di entrare in conflitto con uomini politici? «Sì, per esempio quando stavamo concludendo l'accordo fra noi e l'Ili per unire in una sola azienda le industrie italiane che producono impianti per le telecomunicazioni. Si trattava di unificare Telettra e Italtel e di accordarci sul nome della persona che avrebbe dovuto guidarla. E accadde una cosa paradossale: io ero d'accordo sul nome della povera Marisa Bellisario, ma un partito politico pretendeva di imporla come una sua scelta. Puntai i piedi di nuovo: il criterio deve essere di funzionalità, non politico. Se avessi ceduto, quel partito avrebbe poi preteso di imporre anche il successore, creando una sua dinastia. Mi opposi. Il ministro delle Partecipazioni statali dell'epoca andò a visitare quel partito e si sentì due: "Non avete voluto la Bellisario? E noi ora impediremo qualsiasi altra nomina"; Dissi: basta, così mandiamo tutto all'aria. E l'accordo saltò, pòi vendemmo la Telettra ai francesi e l'Italia non ha un'industria di telecomunicazioni». Non si può dire che Romiti sia sinonimo di duttilità, o di arrendevolezza. «Ma no. Non sono affatto un cerbero e mi adatto benissimo alle idee degli altri. Non cedo ai ricatti, questo no. Né alle imposizioni. Quanto al resto ho il carattere di chi deve svolgere ruoli di responsabilità, il che significa essere costretti a fare delle scelte, dover dire di no, e doverlo fare nella perfetta solitudine che accompagna questi ruoli». Lei è o non è un conservatore? «No, ho il temperamento dell'innovatore. Sono un conservatore nel campo dei valori, questo sì: vengo da un mondo povero, sono figlio di un funzionario statale che purtroppo morì quando ero ancora molto giovane, ho studiato e lavorato duramente e credo che questo cursus honorum che parte dagli stenti e dalla forza di volontà dia al carattere quelle caratteristiche forti, che vengono scambiate per reazionarie. Al contrario: mi considero una persona sorridente e anche durante quella adolescenza povera non ho mai perso il gusto per i piccoli piaceri della vita, gli stessi che ho oggi...». Tuttavia lei è intrinsecamente romano, e ha incontrato nella Fiat quanto di più piemontese potesse esistere. Nessun conflitto? «Nessuno. La sintonia fra il mio carattere e quello di questa azienda è stata ed è perfetta, credo, proprio perché abbiamo una grammatica mentale comune. Tenga conto che la Fiat è stata concepita e strutturata, quasi un secolo fa, secondo una cultura piemontese tipicamente militare. Qui si usa ancora "andare a rapporto" e si parla di uno "stato maggiore", e dietro queste antiche espressioni è sempre rimasta in vita un'anima di patriottismo interno, un forte spirito di squadra». Farebbe l'elogio del modello aziendale militare? «Ma no: dico che questa azienda è nata così e così l'ho trovata: con uno spirito di corpo e un patriottismo che durante emergenze terribili come quella del terrorismo permisero di attingere a una riserva inesauribile di energie morali interne proprio mentre si trovava sotto il tiro dei terroristi, e aveva i suoi morti, i suoi gambizzati, subiva aggressioni. Tutto questo fa parte anche del mio patrimonio genetico e mi piacerebbe che tornasse a far parte, nelle forme adatte ai tempi, del patrimonio collettivo». Forse lei è legato a un piccolo mondo antico che non c'è più. «Al contrario. Io semmai ho sempre cercato di lavorare per un grande mondo moderno, che mantenesse il patrimonio e lo stile dei valori collettivi. Giovanni Falcone nel suo libro parla del padre, magistrato anche lui. E racconta che suo padre aveva una visione talmente sacrale dell'abito che indossava per conto dello Stato, da rinunciare a mettere piede in un bar, nel timore che un qualsiasi incontro indesiderato o inopportuno potesse ledere il prestigio della sua funzione. Questo intendo: che il decoro, per esempio, abbia le sue forme. Persino i suoi riti. Pochi giorni fa qui a Torino, all'inaugurazione dell'anno accademico, i professori erano tutti in toga. Fra loro c'era anche il carissimo professor Bobbio, che ha ricevuto un riconoscimento. Sono andato a salutarlo e non ho saputo resistere: vede, professore, gli ho detto, a me piacerebbe che gli accademici vestissero così anche durante le sedute di laurea, per onorare lo studio dei giovani e mostrar loro anche in modo simbolico questo valore...». Non si sente responsabile anche lei della crisi in cui versa il Paese? «Ciascuno di noi ha le sue responsabilità e certamente errori ne abbiamo commessi tutti. E quindi anch'io. Però gli errori si riparano. Anche nell'azienda ho sempre applicato questo principio: capire e analizzare gli errori dei collaboratori, purché di veri errori si trattasse. Mi preoccupa piuttosto il fatto che oggi, invece di concentrare l'attenzione sugli sbagli fatti e sui possibili rimedi, si assiste a un dirottamento verso il chiacchiericcio stagnante che è il fiancheggiatore del vecchio e del peggio». Come ha vissuto i terribili anni a cavallo del 1980? «Ho sempre dormito serenamente. Sapevo che se non ci fossimo comportati come ci stavamo comportando in quei giorni, saremmo morti: avevo la sensazione che le cose si stessero mettendo nel modo che una certa sinistra avrebbe desiderato. Così, quando conobbi Valentino Parlato, mi domandò: ma senta, co- me faceva a sapere che avrebbe vinto lei? E io: non lo sapevo affatto: sapevo però che quella era l'unica strada praticabile». Perché ha voluto render pubblica la sua vergogna, davanti al cardinal Martini, se non si sentiva corresponsabile della vicenda delle tangenti? «Perché era mio dovere assumermi le responsabilità oggettive di quanto aveva fatto Papi, un nostro uomo che non condanno, mentre provo vergogna e nausea per il sistema che lo ha messo di fronte alla scelta di adeguarsi o non lavorare. Del resto la Fiat, moralmente parlando, ha superato prove entusiasmanti». Per esempio? «La storia della P2. Nelle liste della torbida loggia c'erano uomini delle forze armate, c'erano carabinieri, magistrati, uomini politici, professionisti, ma non una, una sola delle trecentomila persone che formano il mondo della Fiat». Una curiosità, come mai lei da studente si fece esonerare dall'ora di religione? «Per solidarietà con il nostro professore di Lettere al "Leonardo da Vinci" di Roma, il professor Mancinelli, un fiero antifascista e che usava con noi metodi spicci e sbrigativi: schiaffoni. Il povero Schimberni, che era in classe con me, un giorno prese una sberla memorabile. Mussolini e il Papa avevano firmato il Concordato e il regime pretendeva un'adesione di massa all'ora di religione: così io chiesi e ottenni l'esonero, solidale con Mancinelli. La religione non c'entra». Che vita faceva da ragazzo? «Sa, era una vita fatta di ingre¬ ra colo bili» dienti molto semplici: si viveva gran parte della giornata fuori di casa, si passava il tempo con gli amici in quella zona di Roma che ha come centro la basilica di San Giovanni, i giardini dell'Alberata, le mura aureliane. Ma la mia vera passione era l'atletica, il salto in alto. E una delle mie più affascinanti scoperte sulla prospettiva di una nuova possibile società industriale a vantaggio dell'essere umano ha a che fare proprio con quella mia passione, con il salto in alto, con lo stupore per i record, di anno in anno nuovi record...». Cioè? Scoprì che si possono superare nuovi record? «Sì: ci siamo resi conto che è sempre possibile andare oltre. Le racconto una storia. Dopo i tremendi scontri sindacali del 1980, cedemmo all'utopia un po' faustiana di sostituire gli operai con i robot. Un giorno vennero a visitarci dei giapponesi. Restarono sconcertati: noi non faremmo mai una cosa del genere, ci dissero. E spiegarono il loro principio: un essere umano introduce continuamente piccoli, magari infinitesimi miglioramenti e questa lunga catena produce un continuo miglioramento del prodotto e uno stato di benessere creativo per se stesso. In questa legge sta anche la radice più profonda della felicità umana». Della felicità? «Quanto meno la fonte primaria del piacere di creare, che è anche quello di vincere, di giocare. Il mondo possibile è quello in cui ognuno lavora alla produzione di qualcosa e si diverte a perfezionarla, e poi quando esce dal suo posto di lavoro e va al mercato come consumatore, trova prodotti sempre più belli, più perfetti, più utili, più divertenti: l'uomo è un protagonista, non un consumista passivo». Esiste un'etica del capitalismo? «Sì, ci credo. In Italia esiste una doppia barriera culturale che cerca di negare questa evidenza: quella di radice cattolica, e quella di radice marxista. Entrambe unite nel demonizzare il profitto, anche quello autentico, non la speculazione. E anche la Chiesa cattolica è sempre stata istintivamente diffidente...». Un ricco non passa per la cruna dell'ago. «E' uno degli argomenti più appassionanti di un dialogo continuo fra me e il cardinale Martini. Gli ho fatto notare che la Chiesa ha sempre concentrato l'attenzione sulle ingiustizie che derivano dal modo in cui le ricchezze sono distribuite, ma non si è mai occupata a fondo del fatto che i beni e le ricchezze debbano essere prima di tutto fabbricati». Lei stava praticamente chiedendo a sua eminenza di aderire a Calvino... «Io avrei voluto soltanto mostrare l'evidenza della relazione che c'è fra la creatività e il profitto, che della creatività in tutte le sue fasi è la mercede. Certo, una volta chiarito questo punto e nobilitato il profitto figlio della creatività, allora si può passare al problema successivo- prelevare una quota di questa ricchezza che è stata fabbricata producendo profitto, e metterla a disposizione della collettività». Che cosa farà il dottor Romiti, quando terminerà la sua carriera di manager? «Non lo so. E' tutto da vedere. Da una parte avrei voglia di dedicarmi un po' a me stesso. Dall'altra, se mi fosse consentito e se ne avessi le capacità, vorrei lavorare per aiutare questo nostro Paese. Ma mi piacerebbe anche aiutare giovani e meno giovani a recuperare e a ricostruire quei valori fondamentali della società che sembrano dispersi». I suoi figli come la giudicano? «Non riesco neppure a ricordare come erano da bambini. Non li ho goduti. Diventati grandi mi hanno regalato per un mio compleanno un cartello, che ho sempre davanti a me in ufficio, in cui è scritto: "L'esempio è la più alta forma d'autorità possibile". Hanno voluto dirmi: Ci hai educato benissimo. E' stato il più bel regalo della mia vita». Paolo frizzanti «A Torino il periodo più bello della mia vita» «Sulle privatizzazioni si gioca il futuro del Paese, ma Amato è solo contro tutti» «In Italia si chiacchiera come all'avanspettacolo poche mi sembrano le persone responsabili» A fianco l'avvocato Giovanni Agnelli Sotto, Giuliano Amato e a destra il cardinale Martini Nella foto grande Cesare Romiti