Il miracolo di Santomaso
Il miracolo di Santomaso Alla Guggenheim sette «lettere» dipinte dall'artista lagunare Il miracolo di Santomaso Così «sentì» lo spirito del Palladio LVENEZIA E sette grandi tele di Giuseppe Santomaso, esposte da domani alla Colle 1 zione Guggenheim segnano indubbiamente un punto centrale nell'attività del maestro. Sono le «Lettere a Palladio», realizzate a Venezia nel '77-78. In occasione della mostra, curata da Fred Licht, viene presentata la monografia di Erich Steingràber su Santomaso, pubblicata dalla Fabbri Editori. La rassegna resterà aperta fino al 29 marzo (dalle 11 alle 18 tutti i giorni, tranne il martedì, sabato dalle 11 alle 21). Il ciclo delle sette opere dall'affascinante titolo è nato sotto il segno di Palladio. Il pittore veneziano, già settantenne ma in piena attività, si sentiva in quegli anni spiritualmente vicino al grande architetto: «Palladio per me rappresenta - affermava allora - la tradizione in evoluzione... Un grande architetto del Cinquecento che ha una cultura greco-romana, ma che avverte le nuove necessità del patrizio, del mercante... adatta le esigenze funzionali e perviene a un'architettura moderna con schemi e moduli, sia pure sconvolti, del mondo classico». Santomaso si era da tempo lasciato alle spalle ogni avvio figurativo, ogni filone post-cubista, per imboccare e poi superare a suo modo la via d'ima ricerca completamente astratta e infine informale-materica, dove l'impianto compositivo trafila entro luminosi, delicati cromatismi di derivazione veneziana. Negli Anni 70, nel quadro d'una costante riflessione sui movimenti' artistici internazionali, la sua ricerca si salda intimamente al ritrovamento del colorismo veneto, che diverrà dato continuo della sua pittura: straordinario sforzo per rifondare nel moderno una tradizione «secondo la quale la luce definisce il colore». Eccoci dunque di fronte alla splendida serie delle sette opere, caratterizzate da colori chiari e delicati - soprattutto uno straordinario grigio-rosa -, ma impostate su geometrie precise, «formulate in tono severo e ascetico», con risultati insieme di purezza e di equilibrio, di umana dolcezza e di tensione metafisica. La forma-base è quella di una busta da lettere, rettangolare, appena abbozzata, che lascia immaginare all'osservatore anche il fotopiano d'una presenza architettonica, immersa in una composizione tenue e vibrante, «in una luce senz'ombre... che promana da dentro». Ne nasce una precisa dialettica tra estesi fondi cromatici e strutture grafiche, e insieme un sotterraneo, sconvolgente dialogo con gli elementi dell'architettura, emergenti dal sogno poetico; il tutto espresso con nuove tecniche che accentuano la simbiosi luce-colore. Ci sono parse affascinanti in particolare le «lettere» n. 1, n. 2 e n. 5, dove il dialogo, si direbbe, è così avvolgente da far pensare a un discorso materiato di silenzi - un dialogo-silenzio. La struttura grafica dei quadri è stata attentamente prefigurata dal maestro in ima serie di schizzi e abbozzi raccolti in un libretto di annotazioni, o se si vuole di «note», dato il tocco musicale che il disegno pare trasmetterci: un vero carnet-guida, di cui oggi ammiriamo il rapido scorrere e fissarsi del disegno, dei ritmi, delle possibili dimensioni, quasi senza pause. Naturalmente nell'avvicinamento a Palladio e nella sua restituzione pittorica, resta qualcosa di misterioso: «E' un pro¬ cesso misterioso» ripeteva Santomaso. Spiegava che mentre camminava per Venezia, lungo il canale della Giudecca segnato da tre grandi emergenze palladiane, il Redentore, le Zitelle, San Giorgio, «ho capito che vivevo dentro uno spazio storico che era quello segnato da Palladio e dal Rinascimento Veneziano; e che poi, stratificando tutte le mie esperienze, ci avevo messo dentro tutti gli impressionisti... e via via tutte le sensazioni che vivo ogni giorno...». Aveva proprio questo modo di esprimersi, per chi lo ricorda, straordinariamente vivo e intuitivo, rapido e ironico, nell'espressione come nel segno. Personaggio indimenticabile nella grande stagione artistica che fiorì a Venezia nel dopoguerra e continuò fino a ieri: pronto alle aperture fino all'ultimo degli 83 anni che visse intensamente, «da veneziano-internazionale» come assicurava sorridendo. Una sera di quattro anni fa, nel «campo» della Fenice, a cena insieme all'aperto, con Zanzotto e Perosa, il Maestro rievocava «gli anni di Peggy Guggenheim» e le vicende della Collezione dove ora sono esposte le sue opere. Accennava al suo rapporto con l'arte internazionale e con le vie del mondo: sempre «visto da qui - diceva - da queste quattro pietre»: non solo la Venezia del Palladio (e forse pensava a queste sue tele), ma la Venezia più povera e più bella, «quella di calle dell'Aceto» - rideva, scegliendo un toponimo, l'aceto, che ha qualcosa insieme di aromatico e di amaro. Lo aspettavano ancora altre esperienze e ricerche, come se la vita fosse infinita. L'ultimo, forse, dei grandi veneziani di quella generazione, insulari e internazionalisti, acuti e instancabili: più passano gli anni, e più nelle loro opere, «lettere» e incontri, sentiamo risonarne la voce. Paolo Barbaro o a e à Camminando lungo la Giudecca scoprì la tradizione e la sua modernità Sopra: «Cantiere in laguna» (1952) di Giuseppe Santomaso e una fotografia dell'artista. Qui accanto una «lettera a Palladio» esposta alla Collezione Guggenheim di Venezia
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