Karajan «fortissimo» per bacchette al veleno

Karajan «fortissimo» per bacchette al veleno I segreti dei grandi direttori d'orchestra, fra megalomanie e tradimenti Karajan «fortissimo» per bacchette al veleno i L mito del Maestro. I grandi direttori d'orchestra e le loro lotte per il potere». E' il titolo del saggio scritto dal musicologo inglese Norman Lebrecht, che uscirà nei prossimi giorni dall'editore Longanesi. Racconta magagne e spietatezze di una professione che i contrasti personali, i contratti miliardari o il culto ossessivo dell'immagine hanno portato «alla soglia dell'estinzione». Da Gustav Mahler a Arturo Toscanini, da Wilhelm Furtwàngler a Léonard Bernstein, da Celibidache a Sinopoli: è una storia di veleni, di narcisismo e di vendette. Anticipiamo tre brani su Herbert von Karajan, Claudio Abbado e Riccardo Muti. Ri ARA JAN aveva in comune con Hitler certi tratti caratteristici: straordinarie capacità di concentra Izione, dedizione assoluta agli obiettivi a lungo termine e un'asessualità ascetica che attirava uomini e donne. Non era un gran donnaiolo, anche se si sposò tre volte e se, come i divi del rock, era perseguitato da una quantità di cause di riconoscimento di paternità. Il suo biografo americano riferisce che una volta la bella amante di un uomo molto ricco entrò nella propria camera d'albergo e trovò Karajan sul letto. Lui si alzò in fretta e uscì. «Non gli interessava far l'amore con lei. Disse che voleva vedere la sua anima: per lui era un ideale romantico» (...). Somigliava a Hitler anche nel distacco, nello spazio che metteva tra sé e i comuni mortali. In un ambiente in cui baci e abbracci sono convenevoli abituali, Karajan stava inviolabilmente sulle sue. I suoi occhi erano di un azzurro gelido, la sua risata non era contagiosa. Gli orchestrali della Philarmonia lo giudicavano «lontano e privo di spirito», e pensavano che la sua musica fosse priva di calore. Gli strumentisti berlinesi ammiravano molto i suoi risultati, ma provavano poco affetto per lui come uomo, sebbene si occupasse del loro benessere, al punto che. presenziava alle feste familiari e disponeva l'assistenza ospedaliera per le loro mogli e madri ammalate. Questa tendenza alla sollecitudine faceva parte del mito hitleriano: «Der Fuhrer, der far uns sorgt», il capo che, come un dio, ha cura di tutti i cittadini. Si gloriava di essere molto vicino all'orchestra che aveva ereditato da Furtwàngler e che diresse fino all'anno della morte. I berlinesi dicevano di loro che erano «ein Herz und eine Seele», un cuore e un'anima sola: ma Karajan aveva modi piuttosto strani per illustrare questa unità. Parlava di una prova in cui era tutto andato male. «Signori, sapete cosa vorrei fare?» aveva chiesto. «Vorrei legarvi tutti insieme con una corda, cospargervi di benzina e darvi fuoco». Vi fu un silenzio agghiacciante fino a che un orchestrale osservò con un filo di voce: «Ma allora non ci avrebbe più a sua disposizione». «Ah, sì», disse Karajan. «L'avevo dimenticato». I suoi commenti acquistavano un'eco d'orrore per il fatto di essere stati pronunciati nella città che Hitler aveva scelto per immolarsi nella sua Gòtterdàmmerung. Karajan, tuttavia, conservò traccia dell'episodio, registrata su pellicola, come monumento all'intimità con i suoi musicisti. Per lavorare con Karajan bisognava accettare la sua autocrazia. «Credo che quello che mi esasperò maggiormente durante l'esecuzione dell'Anello (nel 1968 al Metropolitan)», dichiarò Birgit Nilsson che interpretava Brunilde, «era che dovevamo essere sempre a sua disposizione. Non sapevamo mai quale fosse il programma delle prove, e non potevamo organizzarci. Dovevamo essere lì pronti ogni volta che ci chiamava. Capitava che restassimo ad attenderlo per ore. Io suggerivo di andarcene... ma aveva- mo paura di lui». «Si serviva di noi», concluse la Nilsson. Agnes Baltsa abbandonò la Carmen: il suo temperamento greco non reggeva più. I soprani giovani erano costretti a forzare la voce in ruoli tremendi, ben superiori alle loro capacità, e iostenibili soltanto in uno studio discografico. Mandate allo sbaraglio sul palcoscenico operistico, Helga Dernesch, Katia Ricciarelli e altre pagarono la presunzione del Maestro con i fischi e con danni alla voce. I cantanti più forti che soprav¬ vivevano a questo trattamente ne uscivano musicalmente arricchiti. «Con Karajan, all'improvviso sentivi la musica con orecchi nuovi», scrisse Placido Domingo. «Il suo modo di plasmare un artista, di guidare un cantante», ammise la Baltsa, «è insuperabile». «Quando ti accettava, si fidava completamente di te», disse Sena Jurinac. Ma anche i preferiti andavano soggetti ad attacchi improvvisi che minavano la fiducia in loro stessi e li lasciavano tremanti in suo potere. «Lei ha gli occhi castani, gli occhi di un traditore», gridò in pubblico e senza alcuna provocazione al suo scenografo Gùnter Schneider-Siemssen. Mai, in ventisette anni di collaborazione, si rivolse a lui con il familiare, amichevole «du». Karajan, mormorava il paziente manager della sua orchestra, «è come il tempo». Si vedeva come l'uomo del destino, quasi come una forza della natura. «Sono sicuro che verrà il mio momento e io l'attendo con tranquilla certezza», scrisse a un amico dopo la guerra. «Nella sua ottica, era Hitler», sostiene un importantissimo esponente dell'industria discografica. «Non c'è il minimo dubbio», afferma il biografo americano che fu da lui condotto a visitare il covo del Fuhrer a Berchtesgaden, «che Karajan provasse una grande ammirazione per Hitler». Il Fùhrerprinzip era incarnato quotidianamente da un musicista che amava essere conosciuto come «Der Chef». Quando entrava nella sede della Filarmonica di Berlino, i dipendenti stavano sull'attenti sulla scalinata, uno per gradino, e gli porgevano i documenti che firmava maestosamente mentre saliva. La sua macchina doveva essere parcheggiata esattamente davanti all'entrata degli artisti, nonostante i regolamenti di polizia. Era capace di gettare il suo cappotto a un produttore discografico, per ricordargli che lui era il padrone, il produttore un servo. Aveva in comune con Hitler il fatto di essere uno straniero, un provinciale austriaco nella Germania cosmopolita... e in quanto a questo, non era neppure molto austriaco. I suoi antenati paterni erano greci e si chiamavano Karajannis; la madre era slovacca. L'aristocratico «von» era una recente patente di nobiltà concessa da una corte di secondaria importanza (...) Qui accanto Claudio Abbado. Sopra il titolo, a sinistra Herbert von Karajan. A destra Riccardo Muti

Luoghi citati: Berchtesgaden, Berlino, Germania, Sinopoli