Assediato dai giornalisti Chiama il 113: «Aiuto!»

Assediato dai giornalisti Chiama il 113: «Aiuto!» Assediato dai giornalisti Chiama il 113: «Aiuto!» PERSONAGGI TRIVULZIO IL GIÓRNO PIÙ' LUNGO IJU MlllCf talli I: f (IV > EMILANO ricordatevi, quello che disse meglio fessi che ladri è finito dentro anche lui». Ammonisce, il «mariuolo». No, non la vuol fare la figura del fesso Mario Chiesa, ex socialista di grido, prima condanna a 6 anni. Sarcastico cita Giacomo Properzij, pri, anche lui nei fanghi dell'inchiesta. Parla Mario Chiesa, ma solo in aula. A porte chiuse. Parla agli avvocati, a Di Pietro che gli ha stretto le mano e ha chiesto la condanna, e al giudice Ghitti. Che di lì a un'ora pronuncerà il primo verdetto contro il primo di Tangentopoli, beccato con le «mani nella marmellata». In flagrante, lui che si faceva chiamare «signor dieci per cento» come la percentuale che chiedeva. «Se vedessi Chiesa? Gli ricorderei quali erano i nostri rapporti. Quindici secondi nel suo ufficio e continue richieste di soldi. Mi trattava come un cretino», ripensa oggi Luca Magni, 32 anni, titolare di una impresa di pulizia a Monza, strangolato da Chiesa fino a quel 17 feb- braio quando gli portò la mazzetta definitiva. Luca Magni, come tutti, ha saputo la notizia dal Tg. A Chiesa, invece, l'ha telefonata il suo avvocato. «Adesso cosa devo pensare?», chiede il «mariuolo» dall'altro capo del filo. «Vedremo le motivazioni della condanna», rassicura l'avvocato Nerio Diodà. «Ah, va bene», balbetta Chiesa impacciato. E cerca di allontanare l'incubo di San Vittore. Quarantatre giorni di isolamento, sfogliando i giornali e rodendosi il fegato. Fino all'arrivo di Di Pietro, la confessione e l'uscita dal carcere. Torna e fugge, Mario Chiesa, nel giorno del giudizio. Arriva in Tribunale pochi minuti prima delle 10, quando in tv sta scendendo Alberto Tomba. Anche Chiesa scivola veloce sui marmi tirati a lucido. Dribbla i fotografi, le tv che gli sparano le luci in faccia e si infila in aula. Al sicuro. Siede in seconda fila, banco di sinistra. L'impermeabile bianco è appoggiato alla balaustra. Davanti a lui c'è solo il giudice Ghitti. Quello che lo ha interrogato la prima volta, a febbraio. Chiesa battibecca in aula, fa il sarcastico. Dietro agli occhialini di metallo scruta Sandro Antoniazzi, quello che ha preso il suo posto nell'ufficio al Trivulzio. Antoniazzi vuole parlare e Ghitti dice di no. Alle 11,45 il giudice va nel suo ufficio, per decidere le condanne. E Mario Chiesa si defila. Riaffronta i fotografi che lo seguono passo a passo. Fino all'ingresso. E' un assedio. E Chiesa chiede aiuto. Telefona al 113. «Sono Mario Chiesa. Sono circondato. Non riesco a uscire dal palazzo di giustizia. Voglio un auto», implora. «Spiacenti rispondono gentili dalla questura - si rivolga ai carabinieri. Sono loro competenti». Alla fine è un taxi che trae d'impaccio l'ex potente amministratore. Chiesa si infila nell'auto gialla fatta entrare nel cortile e se ne va. Ma non a casa. In Via Monterosa c'è il rischio dell'assedio dei giornalisti. Rosa, la giovanissima compagna non gradisce. E poi c'è il bambino piccolo. Via verso un posto sicuro. Ma dove, ora che non ci sono più gli amici? Certo non dalla ex moglie, Laura Sala. Ieri lo ha aspettato a lungo per la causa di divorzio. E lui che non le passa da mesi l'assegno. Non si sentono nemmeno più. Dietro al galoppatoio c'è il modesto villino a due piani dove vivono gli anziani genitori di Chiesa. E' quello il rifugio? Dalla mamma Ambra, ex degente della Baggina, esibita con orgoglio a Bettino Craxi, quando erano bei tempi? Al telefono il padre di Chiesa, il geometra Luigi, risponde appena al buongiorno: «No, buonanotte. Non ho bisogno di parlare». Clic, e senza replica. Telefona, l'avvocato Nerio Diodà. Comunica la notizia. Prendono accordi per un incontro, lunedì nello studio del legale. C'è da preparare il ricorso in appello. Una sola telefonata e poi basta. Nessuno chiama più l'uomo che sognava di diventare il primo cittadino di Milano. Arriva, invece, il Tg. Ore 13. Prima notizia. Fac¬ cione pallido di Chiesa. Immobile. Lo vede anche Luca Magni, a Monza. L'ultimo incontro il 17 febbraio. Chiesa arrogante, conta i 7 milioni e protesta perché sono pochi. Magni, titubante, telecamera nella borsa, radiomicrofono all'occhiello, conta solo i secondi che mancano all'irruzione dei carabinieri. Dice adesso Luca Magni: «Quando ho saputo che lo hanno condannato mi sono chiesto: chissà se tornerà in carcere? Poi mi sono detto che non è un problema mio. Voglio solo che sia d'esempio. E' importante». Aggiunge l'imprenditore piccolo piccolo che ha fatto franare il «sistema»: «Finalmente è stato stabilito che io non ero d'accordo con lui. Che era lui che mi chiedeva i soldi». E di quel giorno. Luca Magni, cosa ricorda? «Avevo tantissima paura - dice - Allora non ero così fiducioso. Pensavo che sarebbe stata lunga. Che ci sarebbero voluti anni. No, Di Pietro l'ho visto una volta sola. Cosa penso? Che sarà soddisfatto anche lui». [f. poi.] Il sostituto procuratore Antonio Di Pietro lascia l'aula del processo contro Mario Chiesa dopo la lettura della sentenza

Luoghi citati: Milano, Monza