MERCANTI DI DALMAZIA
MERCANTI DI DALMAZIA MERCANTI DI DALMAZIA S OLTANTO chi ha conosciuto l'opulenta Zara fra le due guerre, la Zara del porto franco, la Zara dei famosi liquori e delle più note sigarette americane e inglesi dal prezzo irrisorio, può stagliare con proprietà il nome Luxardo su uno sfondo storico ormai dissolto e dimenticato. I Luxardo, vecchia famiglia imprenditoriale già economicamente cospicua ai tempi della Dalmazia austriaca, quando Zara era sede del governatorato, dovevano toccare il vertice della prosperità nei vent'anni di straordinario benessere diffuso dai privilegi del porto franco fra i trentamila abitanti della fiorente enclave italiana conficcata nel cuore della Dalmazia jugoslava. Il celebre maraschino estratto dalla marasca illirica, emblema della grande famiglia borghese, era diventato con la sua elegante bottiglia impagliata anche il simbolo deh'effimera fortuna della romantica città fortificata di San Simeone e di San Grisogano: forse era vera la leggenda secondo cui, nella dinastia dei Luxardo, i padri sussurravano in punto di morte all'orecchio dei figli la ricetta segreta del liquore. D'altronde, un'aura di leggenda, di mito, talora perfino di mistero, circondava non solo il nome Luxardo, ma anche quello di altre famiglie del patriziato mercantile zaratino dedite alla produzione e al commercio dei liquori, delle sigarette, del caffè, delle più svariate spezie orientali: i fratelli Tolja che avevano accesso e credito presso le maggiori banche del mondo, i Drioli che producevano lo cherry brandy cui D'Annunzio aveva dato il nome di «sangue morlacco», gli Zerauscek, i Predolin, i Perlini. Si trattava di una concentrazione altoboighese, alla sua maniera buddenbrookiana, tutt'altro che casuale. Essa, al di là del transeunte porto franco italiano, affondava le radici in quella particolare civiltà mercantile dell'Adriatico orientale (la Mitteleuropa del Sud) cui appartenevano a pieno titolo i Cosulich (Lussino e Trieste), i Tripcovich (Sinj e Trieste), gli Stock (Spalato e Trieste) e, se voghamo, anche i Veneziani alla cui comunità familiare si apparentò per matrimonio un certo Ettore Schmitz: alias Italo Svevo, lo scrittore che seppe penetrare dall'interno nei tic e nelle nevrosi della lunatica borghesia commerciale triestina. Borghesia spesso irredentistica, anche se le sue matrici etniche, come denunciano i cognomi, potevano essere slave, greche, ebraiche, albanesi. Un unicum irrepetibile del capitalismo europeo. Una lunghissima saga solo in parte narrata da Svevo che, sforzandosi di scrivere in italiano corretto, traduceva un po' dal tedesco e un po' dal veneto duro che si parla speditamente a Trieste e che si parlava più lentamente in Dalmazia. EnzoBetttza
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