LUXARDO il desaparecido di Zara

LUXARDO il desaparecido di Zara Il mistero dell'uomo fatto sparire dai tìtini mezzo secolo fa: lo ricostruisce un libro del figlio LUXARDO il desaparecido di Zara 7SARA, 1944. E' passato m quasi mezzo secolo, si ri■ parla di un mistero. Mai MI svelato. La morte di PieMAi tra Luxardo, padrone della distilleria celebre in tutto il mondo. Fatto sparire dai titilli una notte di novembre. Non era un fascista niilitante. Non si sa, probabilmente non si saprà mai, da chi è stato ucciso, dove, quando. Perché questo dramma non venga dimenticato il figlio, Nicolò Luxardo De Franchi, ha scritto un libro, Dietro gli scogli di Zara, che sta per uscire dall'Editrice Goriziana. «Vivere in un baracchino di legno, senz'acqua, senza medicine, con ruberie enormi da tutte le parti, cozzando mattina e sera contro contrarietà morali e materiali, non è facile... D'altra parte io non sono un mezzo uomo né so mollare un incarico assuntomi, costi quel che costi...». Così scrive Pietro, pochi mesi prima della cattura. Con i fratelli non è soltanto il produttore del maraschino più sublime del mondo. E' alla testa di un impero economico, possiede una flotta, appartiene a una delle grandi famiglie dalmate di rigorosa educazione asburgica e di cuore appassionatamente italiano. Una barca con sua moglie, i suoi due figli, il fratello Nicolò e la cognata Bianca si è già staccata dal porto, in un'alba gelida di gennaio, destinazione Trieste. I bombardamenti a tappeto hanno distrutto la fabbrica. Lui resta. Sente come dovere l'aiutare la sua gente. Ma nella notte fra il 31 ottobre e il 10 novembre gli jugoslavi occupano Zara. Qui come in tutte le zone di conquista, Tito «deve» sbarazzarsi della classe dirigente, di quei nomi attorno ai quali potrebbe aggregarsi una resistenza. Il 2 novembre Luxardo è arrestato. Nicolò e Bianca, l'ultimo giorno, dolcissimo, di settembre, sono già stati gettati in fondo allo specchio di mare davanti all'isola di Sale. Il 12 novembre Pietro viene prelevato dai sotterranei dell'antica caserma veneziana di Porta Terraferma. Si toglie l'orologio, lo consegna a un amico, compagno di sventura. Gli dice: «A me non servirà più». Ha ragione. Di lui non si saprà più nulla. Eguale destino attende quasi un migliaio di zaratini. Desaparecidos. Piccolo numero, se si vuole, a confronto con i 25'mila morti nelle foibe triestine, di Gorizia, dell'Istria. Ma scomparsi senza lasciar traccia, se non nella memoria di qualcuno tra i 350 mila italiani die vivevano in quelle terre e si sona dispersi in ima diaspora arrivata all'Australia, al Canada. Nicolò Luxardo De Franchi ha meditato a lungo prima di decidersi a scrivere questa «story». Alla fine dei '40, quasi un ragazzo, insieme allo zio Giorgio unico superstite dei tre fratelli, ha ricostruito la ditta a Torreglia di Padova «perché le marasche dei Colli Euganei sono buone come quelle dalmate». Bisognava non interrompere l'opera iniziata nel 1817 da Girolamo che, incaricato d'affari a Zara del re di Sardegna, aveva deciso di ingannare il troppo tempo libero industrializzando il delizioso liquore fatto in casa dalla moglie, marchesa Canovari. Ora in azienda lavora già la sesta generazione. Gente schiva, assente per vocazione dalle cronache, appartata. Come mai, allora, questa uscita in pubblico? «Sono cento anni dalla nascita di mio padre. E io verso di lui ho sempre avuto un certo senso di colpa - spiega Nicolò Luxardo -. Da Zara, a mia madre che era con noi ragazzi in salvo a Venezia, papà scriveva: "Perché quel mascalzoncello di Nichetto non mi ha mandato neppure una lettera?" E' un piccolo risarcimento». Il libro va oltre la cronaca di un triplo delitto. Da storico quale è, Luxardo si «serve» del dramma personale per ripresentare al proprio Paese un conto rimasto aperto. E non «solo» il suo. Nell'esame della situazione italo-jugoslava tra il '45 e i due decenni successivi, l'autore è sostenuto dagli interventi di Diego De Castro e di Boberto Spazzali studioso della realtà giuliana. De Castro è uno degli uomini che meglio conosce quel drammatico periodo: fu collaboratore di De Gasperi e, dal luglio '52 al marzo '54, consigliere politico italiano presso il Comando AUea- to della Zona A Si occupa soprattutto di Pietro. Contro Nicolò, dopo averlo ucciso, i titini imbastirono alla fine del '45 un processo con relativa condanna a morte dell'imputato «contumace». Il suo caso si chiuse, tragicamente, così. Per Pietro invece non è stata mai pace. Secondo le deduzioni più accettabili, sarebbe stato deportato in un campo di lavoro, probabilmente quello di Bor in Serbia e/o condannato a morte dal Tribunale dell'8° Cor- po d'Armata jugoslavo presieduto da un certo Glavan. «Il personaggio - rivela l'autore del libro è ancora vivo, da qualche parte in Dalmazia, l'unico che potrebbe parlare. Non parlerà». Che ha fatto l'Italia per questi suoi cittadini? «Alla fine del '44 noi sapevamo benissimo che vi erano prigionieri di guerra in Jugoslavia - scrive De Castro - ma non sapevamo nulla sui civili deportati... Devo però onestamente ammettere che ci interessavamo molto di più degli scomparsi della Venezia Giuba che di quelli di Zara. La ragione è semplice: eravamo convinti che la popolazione fosse completamente sfollata dati gli spaventosi bombardamenti cui gli Anglo-Americani sottoposero la città». I Luxardo sostengono di essersi trovati soli nella ricerca dello scomparso, se si eccettua qualche aiuto dal clero di Zara, anch'esso perseguitato dal regime jugoslavo. Ci dice Livio Zeno, autorevole diploma¬ tico che dal '47 al '51-'52 fece parte del gabinetto Sforza, ministro degli Esteri: «Noi, non si poteva fare di più. Non potevamo battere i pugni sul tavolo, non avevamo né soldi, né forze, avevamo solo gli occhi per piangere». Ad alcune richieste, il Vaticano non rispose. Idem fece il ministro degli Esteri Segni, nel '60. Attorno alla famiglia ancora ricca si aggirano per anni gli sciacalli. Arrivano «notizie» di Pietro da una miniera di rame in Bulgaria, da un lager croato, dalla Cina. Compare ad un tratto un certo Max che conduce le «trattative» per il rientro del prigioniero, la «commedia» dura lunghi mesi. Per approdare al nulla. Così «la sorte di Pietro Luxardo conclude suo figlio - sarebbe rimasta avvolta nella tenebra...». Anche se qualche spiraglio potrebbe aprirsi. De Castro lancia un invito: le segnalazioni servirebbero non per colpire i colpevoli, essendo il reato ormai prescritto, ma come gesto di pietà umana. «Tutto questo potrebbe avverare - ribatte Luxardo, scettico - se lo Stato italiano avesse interesse a tutelare la comunità italiana che vive oltre la frontiera orientale. Invece noi abbiamo riconosciuto Croazia e Slovenia senza chiedere contropartite. In realtà il misfatto, la vendita degli italiani di laggiù, si è compiuto nel '47: il resto è conseguenza». Mirella Appiottì Gli slavi in città, s'inizia la vendetta: arrestano Pietro, re del maraschino, e lo fanno sparire, dopo aver ucciso fratello e cognata L'autore: «Nella ricerca ci hanno lasciati soli» De Castro: «Non sapevamo dei deportati civili» lilìt il palazzo del Barcagno nella Zara del 1943 Nella foto grande: la famiglia Luxardo agli inizi degli Anni Trenta. All'estrema sinistra Pietro, a destra, Nico e Bianca Estate 1944: l'ultima foto di Pietro A sinistra: Pietro e Giorgio ai primi del Novecento