La stella ebrea della Gestapo

La stella ebrea della Gestapo Nel racconto dell'ex innamorato la storia di una cacciatrice di teste La stella ebrea della Gestapo NEW YORK DAL NOSTRO INVIATO Un amore adolescenziale, struggente ma inespresso. Peter intravedeva Stella in palestra: bionda, il corpo perfetto, precocemente sensuale, quasi sfrontata nella sua bellezza. Lui passava in bicicletta sotto la casa di lei, nel quartiere di Wilmersdorf, sperando di incontrarla. E saliva ogni mattina col batticuore sul tram numero 176, perché sapeva che poteva esserci anche lei. Cantavano insieme nel coro della scuola, ma Stella non lo degnò mai di uno sguardo. Una storia banale? Certo, se non si fosse svolta nella Berlino nazista alla vigilia della guerra. E se la scuola non fosse stata la «Goldschmidt Schule», la sola che dopo il 1935 i ragazzi ebrei della capitale fossero ammessi a frequentare. E se Stella Goldschlag, la splendida adolescente bionda che tutti i ragazzi desideravano e tutte le ragazze invidiavano, non fosse diventata qualphe anno dopo una spia della Gestapo, spietata cacciatrice dei suoi correligionari che cercavano di sottrarsi alle deportazioni. Cinquanta anni dopo, come per liberarsi da un'ossessione, Peter Wyden, l'ex innamorato timido che ora fa il giornalista a New York, ha ricostruito la straordinaria vicenda in un libro che si intitola appunto «Stella», pubblicato da Simon & Schuster. Anche se la scrittura è scialba e sconnessa, il racconto è affascinante, perché trascina il lettore in quella «zona grigia» della collaborazione descritta da Primo Levi, tra i perseguitati che diventano complici dei persecutori, in un mondo abitato da figure turpi e patetiche «che è indispensabile cdViòscere se vogliamo conoscere la specie umana». Peter e Stella appartenevano a quel ceto ebraico urbano ed agiato, che si era nutrito di cultura tedesca e si sentiva completamente assimilato nella Germa nia pre-hitleriana. Sui sontuosi mobili delle loro case venivano orgogliosamente esibite le foto dei padri e dei nonni in unifor me, con l'elmo chiodato dell'esercito gughelmino e con le decorazioni di guerra che testimoniavano un patriottismo che anni dopo il rabbino Joachim Prinz avrebbe definito «patologico». Sì, in occasione delle feste comandate, queste famiglie comparivano in sinagoga, ma si sentivano sostanzialmente estranee alla comunità religiosa ebraica rap presentata dagli «Ostjuden», gli ebrei provenienti dall'Europa Orientale, che parlavano «yiddish», che vivevano poveramente, e che agli occhi degli ebrei germanizzati apparivano rapaci e privi di scrupoli. Tra gli Anni 20 e gli Anni 30, la borghesia ebraica aveva dato alla Germania un ministro degli Esteri (Walter Rathenau), musicisti illustri (Arnold Schoenberg, Kurt Weill, Bruno Walter), pre stigiosi uomini di teatro (Max Reinhardt) e di cinema (Fritz Lang, Ernst Lubitsch), pittori (Max Liebermann), scienziati (Albert Einstein), per non parlare di editori, scrittori e giornalisti. Erano ebrei i più grandi editori berlinesi (la famiglia Ullstein) e quasi tutti i critici teatrali. Erano ebrei i proprietari dei grandi magazzini - Wertheim, Tiez, Israel, KaDeWe - nonché molti imprenditori, in particolare nel settore dell'abbigliamento. Se non fosse arrivato al potere quel lunatico caporale austriaco, Peter e Stella si sarebbero inseriti con successo nella borghesia berlinese, in una capitale che, oltretutto, era assai meno inquinata dall'antisemitismo rispetto ad altre città europee. Ma «il pazzo» aveva vinto. Ed il destino presto separò i ragazzi della scuola Goldschmidt. Peter emigrò in America nel 1937. Suo padre era un facoltoso commerciante, con amici potenti all'estero e con cospicui conti in banca. Capì che le cose si stavano mettendo male ed ebbe il coraggio di lasciare la Germania. Quasi tutti gli ebrei tedeschi ricchi o intellettualmente illustri si salvarono. Furono sorretti dal denaro, dalla notorietà internazionale, ed anche dalla fortuna. Il padre di Stella non era ricco né ebbe fortuna. Era un musicista senza successo. E sottovalutava il pericolo nazista. Quando alla fine decise di emigrare, tutte le vie legali di fuga erano ormai chiuse. Tentò l'espatrio in Palestina, ma l'ufficio ebraico di reclutamento (che, sia detto per inciso, restò aperto a Berlino fino al 1942, con campi di addestramento e scuole di agraria per i futuri coloni di Israele) lo giudicò fisicamente ed ideologicamente inabile: troppo laico e «germanizzato», quindi «antisionista». Come decine di migliaia di altri ebrei berlinesi, Herr Goldschlag attese con rassegnazione il corso degli eventi. Sua figlia lo descrisse così: «Papà era un sognatore. Si rifiutava di credere che gli uomini potessero uccidere altri uomini». Peter, diventato nel frattempo cittadino americano, non seppe più nulla di Stella. Fino al 1945, quando tornò a Berlino con l'uniforme statunitense e con l'incarico di riorganizzare la stampa post-nazista. E qui, a poco a po¬ co, tra incredulità e sgomento, seppe che Stella aveva lavorato per quasi tre anni come agente ausiliare della Gestapo. Molti ebrei, a Berlino, per sottrarsi alle deportazioni, vivevano come clandestini. Si nascondevano in case di amici non ebrei e assumevano una nuova identità, grazie ai documenti falsi forniti da una rete di abili contraffattori. Fu un'operazione imponente, tanto che 1321 ebrei erano ancora vivi e liberi quando le truppe russe conquistarono la capitale nazista. La vastità di questa società clandestina e mimetizzata indusse la Gestapo a creare un corpo di agenti speciali, i «greifer» (accalappiatori), come venivano chiamati: ebrei che in cambio della sopravvivenza e di qualche privilegio consegnavano i loro confratelli ai carnefici nazisti. Stella era diventata una «greifer», insieme col suo amante Rolf Isaaksohn, ebreo anche lui. Alle dirette dipendenze di un ufficiale della polizia nazista, che li ospitava nei suoi uffici e li aveva muniti di un lasciapassare e di una pistola, Stella e Rolf avevano scovato migliaia di confratelli. Stella aveva partecipato personalmente a molte azioni. La sua straordinaria bellezza conferiva un alone diabolico alle sue apparizioni accanto ai militi nazisti in uniforme. Nelle tetre leggende della clandestinità ebraica, era stata soprannominata «il veleno biondo» e anche «il fantasma biondo». Quando seppe queste cose, la prima reazione di Peter fu di vergogna. Si sentì come insozzato dal pensiero che un tempo egli aveva segretamente venerato quella ragazza: «Essere stato un suo compagno di classe divenne improvvisamente imbarazzante. Era come se avessi scoperto di aver passato una allegra serata con uno stupratore». Ma lentamente questa rimozione si allentò. Peter fu colto dalla curiosità di saperne in più. L'enigma di Stella lo stregava. Col passare degli anni, trovò va- rie tracce della donna, che nel frattempo aveva cambiato nome e si faceva chiamare Ingrid Kuebler: aveva subito tre processi ed aveva scontato oltre dieci anni di carcere. Ma tutte queste frammentarie notizie non componevano un quadro coerente che consentisse di rispondere alla domanda: perché aveva tradito? Le spiegazioni fornite da Stella in tribunale non erano esaurienti e tanto meno credibili. Diceva di aver fatto finta di aiutare la Gestapo, ma sosteneva di non aver denunciato mai nessuno. Dopo aver subito tenibili torture, aveva accettato il ruolo di «greifer» per sottrarre alla morte i suoi genitori. Era un prezzo più che giustificato: chi non avrebbe fatto altrettanto? Ma le testimonianze provavano che Stella aveva continuato a servire la polizia hitleriana anche dopo che i suoi genitori erano stati deportati nel campo di Theresienstadt, dove erano morti. Una volta caduta in trappola, Stella ci era rimasta fino alla fine, per salvare se stessa ed i privilegi di cui godeva. E dunque la domanda si riproponeva: perché? Alla fine, dopo anni di ricerche, Peter Wyden ha saputo tre anni fa che Stella era viva ed abitava in una città tedesca, della quale non ci rivela il nome. E' piombato a casa sua all'improvviso. E' stato accolto con gratitudine e tenerezza, non sappiamo quanto sincere. Quando descrive l'incontro, dopo mezzo secolo di attese, di ricerche e di tormenti, lo scrittore si sente come un capitano Achab che finalmente riesce ad arpionare la sua balena bianca. Stella gli si presenta come una signora anziana, di una bellezza appassita, ma sempre ben curata. Acconciatura perfetta, abiti eleganti, ostentata sicurezza, grande presenza scenica. Ma tre lunghi colloqui non sciolgono il mistero. Anzi, lo rendono sempre più impenetrabile. Stella si proclama innocente, sostiene di essere stata tradita dalla propria bellezza e dalle sue fattezze germaniche, che la rendevano invisa agli ebrei. Mente? Certo che mente, ma forse non se ne rende conto. Come molti aguzzini nazisti, anche Stella ha finito forse col credere alle sue bugie. Peter Wyden cita un'analisi di Primo Levi: «Il mentitore, nell'atto in cui mente, è un attore totalmente fuso col suo personaggio, non è più discernibile da lui». Al povero Wyden, incapace di carpire la confessione di colpa tanto a lungo vagheggiata, non resta che azzardare varie ipotesi, ciascuna delle quali ha una sfaccettatura di verità. Per esempio, che Stella era in cuor suo una antisemita perché rifiutava una «diversità» che sentiva come un castigo (l'auto-denigrazione ebraica ha una lunga storia, da Benjamin Disraeli a Karl Marx, da Heinrich Heine a Walter Lippmann): mediante il tradimento, Stella sfogava sui confratelli le sue umiliazioni. Ed oggi Stella, come tutti i criminali di guerra, trova conforto nell'idea di aver eseguito un ordine. Era «autorizzata» a fare quel che ha fatto. Era lo strumento di un ordine legale ingiusto, ma pur sempre legale. Quindi non può sentirsi colpevole, perché non ha avuto scelta. Ma più Wyden cerca di decifrare il suo esemplare umano e più si rende conto che i meccanismi psicologici che egli isola e mette a fuoco - l'ottundimento morale, la soppressione della colpa - sono gli stessi che altri ricercatori hanno scoperto ed analizzato in Adolf Eichmann e nei suoi simili. Primo Levi ha lucidamente descritto (in «I sommersi e i salvati») l'identificazione che il nazismo tendeva a creare tra il soverchiatore e la vittima: il modo più efficace per legare a sé i complici esterni, «kapò» o «greifer» che siano, «è caricarli di colpe, insanguinarli, comprometterli quanto più è possibile: così avranno contratto coi mandanti il vincolo della correità, e non potranno più tornare indietro». Come Wyden, tutti gli ex compagni di scuola giudicano Stella colpevole, ma non infieriscono. L'autore ha ritrovato una ventina di allievi della scuola ebraica berlinese, sparsi per il mondo, ed a ciascuno ha chiesto un giudizio. Nessuno dice che Stella andava condannata all'ergastolo o alla pena capitale. Tutti sono consapevoli che la tempestiva fuga da Berlino li ha sottratti a quella scelta fatale che Stella ha dovuto fare: tra la morte ed il patto col diavolo. Come dice la sua ex compagna Marion Sauerbrunn, che oggi vive in una tranquilla casa di campagna nei pressi di New York: «Non so giudicare, io non sono stata messa alla prova». Gaetano Scardocchia La più bella della classe diventa improvvisamente mostro e denuncia i correligionari che tentano di sfuggire ai lager nazisti Assolta dai vecchi compagni: «Siamo scappati prima, non abbiamo dovuto scegliere tra morte o patti con il diavolo» A destra: Stella Goldschlag, quando era l'allieva più amata dal compagni della «Goldschmidt Schule» In alto: in una foto di questi giorni A destra: Peter Wyden in divisa da sergente con la madre Helen Sopra, Stella con l'amante Rolf Isaaksohn e sotto, nell'ovale, a quattro anni insieme con il cuginetto preferito