La pasionaria venuta da Oxford di Domenico Quirico

La pasionaria venuta da Oxford LA DONNA CHE SFIDA L'ISLAM La pasionaria venuta da Oxford // potere come un dovere di famiglia EL romanzo «Shame», criptica metafora della moderna storia del Pakistan, Rushdie l'ha rappresentata con il nome di «Virgin Ironpants» (la vergine con le mutande di ferro). I compagni di corso ad Oxford la chiamavano, con affetto e ammirazione, «Pinky», la pantera, tributo alla sua bellezza ma anche alla forza del carattere. Tutti soprannomi meritati per questa raffinata pasionaria di 39 anni, figlia di una dinastia divisa tra tragedia e potere, capace di scendere in strada, donna in un Paese musulmano, per affrontare gli sfollagente e le fruste della polizia, protetta solo dal velo e dal suo carisma. Due anni fa i generali l'hanno cacciata dal potere con un comunicato di dieci righe in cui liquidavano i suoi settecento giorni di governo (eccezione choccante nel maschilismo islamico) con due sostantivi: «corruzione e incompetenza». Perfino l'ambasciatore americano l'aveva amichevolmente consigliata di scegliere qualche località di villeggiatura del bel mondo per un dorato esilio. Sembrava la fine di una carriera politica. Invece Benazir è rimasta fedele al suo personaggio, «figlia del destino» che fin da piccola la lega alla politica come un dovere di famiglia. Sui domini dei Bhutto, raccontava il generale inglese che nel 1840 aveva conquistato il Sindh alla corona britannica, non tramonta mai il sole. Scandalosamente ricca in un Paese imprigionato dai lacci di una feudale povertà, Benazir bambi- na vedeva sfilare nel giardino di famiglia i grandi del mondo. Il padre, un radical-chic diviso tra Mao e Atatùrk, che distribuiva la terra ai contadini ma non sapeva dire no alla corruzione, le faceva arrivare i vestiti da New York, con la griffe di Saks, sarto della Quinta Strada. Mentre Ah Bhutto incendiava plebi affamate alzando la camicia per mostrare che «non aveva la pancia come i politici ricchi e corrotti», Benazir studiava ad Oxford e sfilava, con il tranquillo furore dei rivoluzionari da salotto, contro la guerra del Vietnam. Ma quando il generale Zia ul Aq, dopo un golpe vittorioso, fece impiccare questo scomodo tribuno miliardario, Benazir dimenticò subito i party, chiuse nel cassetto i vestiti dei sarti occidentali, indossò la «dubatta» (appena impreziosita da orecchini d'autore) e si lanciò nella lotta. Anche se aveva ereditato il «partito di famiglia», la vendetta non fu facile in un Paese ancorato al feudalesimo musulmano: in Pakistan era ancora in vigore una legge secondo cui nei processi la testimonianza di una donna vale metà di quella di un uomo, le atlete dovevano portare anche nelle gare all'estero la tuta, le annunciatrici tv non potevano mostrare le braccia nude. Per questo Benazir ha dovuto piegarsi a molti compromessi, sposare ad esempio secondo la tradizione, lei femminista, l'uomo scelto dalla sua famiglia. Ma conquistare il potere è stato perfino più facile che gestirlo. Quando è diventata premier il carisma che mobilitava folle di milioni di persone non è bastato per sconfiggere i veri burattinai, l'esercito e il presidente Ishaq Khan. Benazir ha liberato i prigionieri politici e sfidato coraggiosamente il potere occulto dei servizi segreti. Ma anche il suo regno non era senza macchie. Il vecchio vizio del nepotismo l'ha portata a nominare vice premier la madre invadente, la begum Nustrat; il marito si è fatto cogliere con le mani nel sacco in squallide storie di tangenti e bustarelle, guadagnandosi il soprannome di «mister dieci per cento». A farla cadere sono stati duemila ulema che dai minareti tuonavano per la satanica bestemmia contro la regola coranica che vuole «gli uomini un gradino più in alto delle donne», e i generali, signori del narcotraffico che in Pakistan è l'unica economia fiorente. Una coalizione potente; ma forse non abbastanza per far tacere un mito. Domenico Quirico Rushdie la chiama «Vergine con le mutande di ferro» Per gli amici è la «pantera» La Bhutto è stata la prima donna a guidare un Paese islamico

Persone citate: Bhutto, Ishaq Khan, Mao, Rushdie, Saks

Luoghi citati: New York, Oxford, Pakistan, Rushdie, Vietnam