«UNA FINESTRA IN BIBLIOTECA...»
«UNA FINESTRA IN BIBLIOTECA...» «UNA FINESTRA IN BIBLIOTECA...» III AMORE del libro mi ave" va accompagnato da quando ero il piccolo i cliente smarrito delle So—LI ralle Venturini fino al giorno in cui mi ero fatto aprire i preziosi scaffali dei grandi antiquari parigini. Ai primi tempi la ricerca del libro aveva avuto un valore strumentale. Doveva rispondere al mestiere che avevo scelto. Poi la mia ricerca si era allargata. Confesso di avere amato il libro, come un tempo il violino, anche per la sua bellezza. Ma senza che mai divenisse soltanto un oggetto. L'oggetto, bello che sia, nella sua sohtudine egoista, nella incapacità di donarci il pur minimo accenno al suo segreto (e la sua vera storia noi la ignoriamo), è lì, onesto e insolente. Esso non può concederci altro piacere che guardarlo, simbolo di abitudini spente, dimesso e pervicace come un sopravvissuto. La bellezza di un libro non si esaurisce nel gusto di vederlo, di ammirarlo. Racchiude un universo di immagini mentali e fantasmi e pensieri da interrogare pazientemente. Perciò non potevo divenire un bibliofilo. H bibliofilo guarda il libro tenendo presente la sua rarità. Si chiede a chi sia appartenuto prima di finire nelle sue mani. Ricerca in un esemplare la firma del rilegatore. Per lui insomma il contenuto di un volume passa del tutto in secondo piano. Io credo invece di non aver mai comprato un libro solo perché nei suoi piatti in marocchino rosso apparivano impresse le armi di un pontefice. Eppure non andrò mai d'accordo con coloro che non vedono alcuna differenza tra un'edizione moderna di Madame Bovary e un esemplare ottocentesco in cui brilli nel frontespizio la firma di Flaubert. Il libro antico ha suscitato sempre in me incredibili slanci della fantasia. Il libro antico ha un suo passato, è vissuto in tante case prima di entrare nella nostra, ha visto passare la malinconia di tante giornate, ha partecipato alla vita quotidiana nella solitudine della lettura, si è salvato dai naufragi e dai terremoti. Ci restituisce miracolosamente il senso di un'epoca. E perciò, quando un volume, appartenuto a un grande scrittore, approda chissà dopo quante peripezie a casa nostra, nasce in noi la suggestione che un po' del calore delle mani che lo hanno sfiorato, e anche un po' del suo pensiero, si siano depositati su quelle carte ingiallite. E a questo misterioso genere di bellezza hanno creduto scrittori come Balzac, come Baudelaire; Baudelaire che, pur con pochi soldi in tasca, mostrava il suo disprezzo per «l'exemplaire vulgaire», e non rinunciava, pri¬ ma di spedire alla madre una copia della seconda edizione delle Fleurs du Mal, a farla rilegare in marocchino rosso da un famoso rilegatore dell'epoca: Lortic. Di un oggetto di tutti e di nessuno egli faceva «una cosa», una cosa che era di «uno», destinata a qualcuno. E non c'è da stupirsi se i miei libri nelle loro stanze appartate siano collocati accanto ad altri oggetti e soprattutto ad opere di pittura, a quadri di artisti antichi e moderni. Anche qui nessun'ombra di collezionismo. Diceva Baudelaire che appartiene solo agli artisti e ai bambini il gustare intensamente le immagini. Per questi privilegiati un'immagine rappresenta autre chose: un sogno cui aggrapparsi, un viaggio miracoloso, un minuto di salvezza. Resta in me qualcosa di quel bambino. L'affetto che porto a questi quadri non dipende dal loro valore. Essi appartengono in gran parte al periodo in cui mi sono formato. Sono quadri di pittori che ho conosciuto, che sono stati miei amici, e che hanno dato, per così dire, un volto a una stagione della mia vita, alla mia giovinezza. Carrà che incontravo nella sua villa di Forte dei Marmi, De Pisis, conosciuto a Parigi nel suo studio di rue Servandoni, in compagnia di Gianfranco Contini, o Morandi a Bologna nella famosa via Fondazza o pittori del periodo della rivista L'Immagine: Toti, Ciarrocchi, Stradone, i cosiddetti «pittori fuori strada», o Mafai e Gentihni. Sarà anche per questo se la mia biblioteca non è diventata un bunker, una camera blindata che m'impedisse ogni rapporto col mondo esterno. Non è che la mia vita cominci e finisca qui. Ci mancherebbe altro. E' una finestra aperta suU'awenire e sul passato. La mia immaginazione non nasce soltanto da questa enorme quantità di carta stampata, messa in bell'ordine. Essa, se mai, viene educata e poi spinta, accesa da ciò che un libro può avere detto prima di noi. E' un processo contraddittorio. Giovanni Macchia Giovanni Macchia con la moglie, «Donna Carla» (foto E. Ackermann). Sotto, Flaubert Sopra, Filippo de Pisis: Macchia lo conobbe con Contini nello studio di Parigi
Luoghi citati: Bologna, Forte Dei Marmi, Parigi
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