La resurrezione di MALCOLM X di Furio Colombo

La resurrezione di MALCOLM XLa resurrezione di MALCOLM X r\\ NEW YORK i HI è Malcolm X? I ricor- I idi si impigliano nella li memoria. Quelli pubbli- —5^Jci. Era un personaggio isolato, qualcuno che ha commesso il più imperdonabile degli errori: staccarsi da un gruppo estremista. Era il profeta di una chiesa non ancora annunciata, quando è stato ucciso. Io me lo ricordo quando parlava alla moschea di Harlem, prima di abbandonare la «Nazione dell'Islam», quando era il portavoce di Elijah Muhammad in Manhattan. Me lo ricordo tagliente, violento, automatico, niente in lui faceva pensare al leader carismatico. II suo successo dipendeva dal messaggio: separazione e rivoluzione. Era un commissario politico. Me lo ricordo quando parlava allo Audibon Auditorium, due o tre settimane prima di essere ucciso. Era un predicatore problematico, sembrava più colto, più artista, vedeva le facce diverse del mondo, un lusso che un leader di massa non può mai permettersi, vedeva le sfumature. C'era poca gente, è morto subito. In privato rivedo due incontri. Io che vado a intervistarlo all'African National Bookstore, nella Settima Avenue, in Harlem. Ho di fronte a me un uomo gelido, potrebbe essere un poliziotto in borghese, o un prete fanatico. Era come se parlasse con il registratore. Una breve catena di concetti che andavano dall'Africa ai giorni nostri, ciascun segmento con una conclusione di sangue e una promessa spietata. c Non aveva tempo, non aveva interesse. Unico spunto personale. A un certo punto, dietro gli occhiali che ricordo impolverati, mi fissa per dire: lei è italiano. Pensi all'Etiopia, se vuole ricordare qualcosa che ci riguarda. Anzi non lo pensi. Al nostro genocidio ci pensiamo noi. L'altro incontro è avvenuto insieme ad Amiri Baraka che allora si chiamava LeRoi Jones. Era nell'appartamento a pian terreno, quasi un sottoscala pieno di libri, che allora serviva da casa newyorchese per James Baldwin. Mi ricordo un tavolo rotondo, una lampada verde, sedie pieghevoli da terrazza o da ristorante, una poltrona sfasciata. Sulla poltrona stava James Baldwin. Su una delle sedie pieghevoli era seduto Malcolm X, con un cappotto nero di taglio rigido, il bavero alzato. Parlavano Baraka e Malcolm X. Mi pare che James Baldwin abbia detto poche parole. Quanto a me, non ricordo di avere mai parlato, né di essere stato presentato, non ricordo la stretta di mano, vedo la scena dall'alto. Vuol dire che ero rimasto in piedi. Rammento frasi sulla rappresentatività che ciascuno sentiva di avere. Mi è restata questa impressione. Il poeta e lo scrit- tore nero, che pure erano immensamente più noti in America, cercavano una guida in Malcolm X. Ricordo una autorità che diventava palpabile, un fremito che cominciava a correre, un bocca a bocca che era appena agli inizi. Vedo Malcolm X come nel campo visivo di uno strabico. In una delle immagini c'è il commissario politico di una rivoluzione gelida. Nell'altro c'è un personaggio (più un intellettuale che un politico) che ha visto una cosa ed è sul punto di raccontarla. Sta per parlare e lo uccidono. Adesso - come tutta New York, come tutta l'America - mi trovo di fronte il film. La prima impressione è questa. Qui non si tratta di giudicare un prodotto d'arte o di comunicazione. Un intero Paese deve fare i conti con un fantasma. Del film è facile disporre, e lo diranno gli esperti di quel tipo di narrazione. Ha due protagonisti. Uno è Spike Lee, che nonostante la sua giovane età, nonostante le cattiverie d'autore è, allo stesso tempo, James Baldwin e Amiri Baraka. Sento di non dover dare alcuna importanza alle polemiche che adesso separano il poeta dal regista. Baraka mi ha detto di detestare il progetto del film (aveva letto il copione) di Spike Lee. Spike Lee ha detto (a Lorenzo Soria, su queste pagine): «Se Baraka vuole andarsi a vedere il mio film paghi sette dollari come tutti». Per me la scena è ancora quella della stanza sgangherata di James Baldwin. Spike Lee, a nome di tutti gli intellettuali neri e della classe media afroamericana, la cui vita non è né dentro il ghetto né fuori, sta chiedendo a Malcolm X un legame. I giovani, più rivoluzionari di Lee, potranno dire tutto il male possibile di questo film, ma non potranno negare che un che di messianico passa in tutte le immagini rendendo religiose anche le scene di prostituzione, di rapina, di morte, trasformando la prigione in un percorso di redenzione, narrando le ambiguità del misterioso rapporto fra Malcolm X e la «Nazione dell'Islam» (forse i suoi assassini) come un periodo di iniziazione. Illuminano il breve percorso dell'affrancamento e della predicazione con un forte riferimento (forse inconscio) a Budda e a Gesù. Quando dico inconscio non intendo sottovalutare la cultura e la continua sorveglianza di Spike Lee sul proprio lavoro. E' un regista che si guarda le spalle, da artista, e si tiene aperte alcune vie d'uscita, da politico. Contrariamente a quanto diranno i suoi nemici e forse anche Amiri Baraka, la precauzione di tenere strade aperte a diverse interpretazioni non viene dall'ambivalenza e dal non voler decidere. Viene dalla complessità del personaggio Malcolm X (e anche dalla forza della interpretazione di Denzel Washington, destinato a diventare il Malcolm X in carne e ossa agli occhi dei neri giovani). Infatti ci sono tracce di Siddharta e delle grandi storie di iniziazione al divino che segnano la cultura di molti popoli. Non so come venga insegnata, nella tradizione islamica americana, la storia di Eyup, l'amico di Maometto gettato dalle mura di Bisanzio, la cui morte «fece piangere Dio». Ma i lunghi minuti che precedono l'assassinio, la misteriosità del delitto, il fascio di insinuazioni gettate runa' sull'altra per confondere la pista di stordimento e dolore, portano l'impronta di un evento più grande del complotto politico. Ma anche la parte a luci rosse del film, il Malcolm X dei bordelli, dei bassifondi delle prostitute, delle gang criminali, pur presa dalla cronaca della vita, sembra fatta apposta per ricalcare Siddharta nella fase in cui smette di essere un Samana e va a cercare consolazione e ricchezza nel mondo. Siddharta tiene teso un filo d'amore. Da una parte è radicato nel piacere, dall'altra nella nostalgia di Dio. Questo filo c'è nel film e traspare anche quando il realismo narrativo di Spike Lee ci consegna Malcolm X come sfruttatore assassino. Gli cadrà addosso metà del cielo, quello dei neri giovani che vogliono subito un poster da appendere in casa, un simbolo da adorare. Ma tanti altri, col tempo, faranno di questo film un tabernacolo. C'era bisogno di fede, e il simbolo lasciato da Martin Luther King è stato ormai divorato dai bianchi, non è che un vago ricordo nelle case di Harlem, del North Side di Chicago, del quartiere Roxbury di Boston, nel South Central di Los Angeles, dove interi isolati sono ancora macerie, dopo la rivolta di aprile. Ora Malcolm X è tornato. E Spike Lee non ha fatto che diventare il suo agile e accorto profeta. Baraka potrà dire che ne ha approfittato. Ma dopo le polemiche il film resta, resta Malcolm X. E con questa figura che va dalla vita allo schermo e dallo schermo alla vita, come in una strana metafora della resurrezione, l'America dovrà fare i conti. Il film infatti annuncia mi «secondo risveglio» delle masse nere americane. Non è un caso se il presidente eletto Clinton si fa vedere a correre, la mattina presto, indossando il berrettino con la X che ricorda all'America il profeta fantasma. Non so se fa bene. Quello che vedo accadere nei campus delle università e, con speciale furore, alla Columbia University, è il reclamo di possedere in proprio immagine e mito di Malcolm X, senza per¬ mettere a nessuno di accostarsi. I manifesti e le pubblicazioni che ho raccolto su Malcolm X, il film, l'anniversario, il nuovo militantismo, mettono bene in vista, stampata due volte più grande, la parola genocidio. Contengono frasi crudeli di denuncia e di repulsione. Impediscono di andare insieme alla stessa celebrazione. Ecco un segno ben chiaro. LAmerica di questi giorni, liberata da una disattenzione dei media durata decenni, ricomincia a partire dagli Anni Sessanta, da tutti i conti aperti e le questioni irrisolte e i sogni spezzati in quegli anni. Ma non torna agli Anni Sessanta. Di quel tempo Spike Lee e la memoria nera raccolgono la sparatoria dell'Audibon Auditorium, e l'immagine di un uomo alto e nero che comunica volontà di rivolta e guida soltanto i neri. Quella sparatoria, quell'immagine di profeta assassinato sono qui, adesso, in un mondo costruito diversamente, fatto di dipartimenti, specializzazione, media potenti che amministrano la realtà e il destino del mondo in pochi minuti, strade che possono anche portare lontano, ma portano ciascuno da solo. Chi sarà Malcolm X, adesso? Quale forza esplosiva avrà fra i giovani, fra gli intellettuali afro-americani? Il ritorno del profeta separerà e isolerà la cultura bianca, che non può toccare questo mito, che deve limitarsi ad assistere al culto di altri senza poter entrare nel culto? Sarà un risveglio di collaborazione o un risveglio di scontro? Malcolm X risorto non ha ancora parlato. La sua immagine enigmatica si presenta adesso di fronte al disagio americano. Non tutti i segni tranquillizzano. Riuscirà la cultura di massa a riassorbire questo fenomeno sotto la voce tempo libero ed «entertainment»? Furio Colombo Il Paese dovrà fare i conti col suo fantasma: persino Clinton porta un berretto con la suaX... Disse: «Pensi all'Etiopia se vuole ricordare cose che ci riguardano. Anzi non lo pensi: al nostro genocidio ci pensiamo noi» B. 1 IH